‘Ndrangheta: denuncia i taglieggiatori, non vince più un appalto

Pubblicato il 7 Gennaio 2010 - 14:49 OLTRE 6 MESI FA

Per anni Gaetano Safiotti ha pagato il pizzo. Un giorno, però, dopo l”ennesima intimidazione ha denunciato tutto. Da quel momento in poi, per l’imprenditore edile la vita e il lavoro sono cambiati, e non certo in meglio. Saffiotti, nonostante il fatto che grazie al materiale fornito agli investigatori siano finiti in carcere 48 esponenti della n’drangheta,  nella sua terra, la Calabria non può più lavorare.

Non perché ci sia un embargo scritto, anzi. Semplicemente, dopo la denuncia, la sua azienda di Palmi, la “Saffiotti Calcestruzzi e movimento terre” ha iniziato ad arrivare seconda in tutte  le gare d’appalto nel territorio in cui ha partecipato. La sua azienda, un fatturato da 15 milioni prima della denuncia ridotto a 500 mila oggi, vive solo grazie ai clienti stranieri.

Saffioti racconta al quotidiano La Stampa come tutto il suo lavoro si sia sbriciolato nel giro di un attimo: «In pochi giorni persi tutte le commesse, 55 dei 60 operai, le banche mi chiudevano i conti attivi, i fornitori mi chiedevano fideiussioni oltre il terzo grado di parentela “perché tu sei un morto che cammina”».

L’imprenditore, la cui azienda è una specie di bunker, vive sorvegliato giorno e notte dalla Guradia di Finanza. «Sto come a Guantanamo – spiega – Se voglio andare a un ristorante, sempre che il proprietario mi voglia, devo prima chiedere il permesso e i finanzieri devono “bonificare” il ristorante».

La ‘ndrangheta Saffioti l’ha conosciuta da bambino. Aveva vinto un soggiorno premio in colonia, ma subito dopo la partenza il padre gli ha chiesto di rimanere con lui perchè sentiva troppo la sua mancanza. La realtà, quella delle minacce, l’imprenditore l’ha compresa solo dopo. Nonostante questo, però, Saffioti non si è perso d’animo e alla fine ha deciso di aprire una sua impresa. Gli affari, nonostante il pizzo, andavano bene, soprattutto all’inizio quando, grazie al dilagare dell’abusivismo le cosche «si accontentavano dei grandi appalti e ci lasciavano almeno le briciole».

Racconta ancora l’imprenditore: «A loro (la ‘ndrangheta) non sfugge niente: persino i professori di scuola pagano il pizzo, sono costretti a dare voti alti ai figli dei boss. Da me si presentavano a tutte le ore, io preparavo i soldi e li consegnavo in pacchetti da dieci milioni».

Saffioti ricorda di come gli strozzini sapessero prima di lui quando arrivavano i soldi in banca: «Ogni volta venivano a prendere una percentuale tra il 3 e il 15%. Quando poi c’era un sequestro di beni bisognava risarcire i boss con pagamenti doppi o tripli».

Nonostante i soldi versati, però, Saffioti era uno scomodo: si permetteva di acquistare mezzi propri che, pagati, venivano tenuti fermi nei garage mentre si usavano, e pagavano, i macchiari dei boss». Le intimidazioni, quindi, proseguivano insieme ai pagamenti finchè un giorno, l’imprenditore rischia di perdere il fratello in un incendio.

È la goccia che fa traboccare il vaso: Saffioti denuncia, i delinquenti finiscono in carcere ma l’imprenditore perde anche soldi, serenità e libertà.