La ‘Ndrangheta non merita figli. I giudici: “Via dalle famiglie”

Pubblicato il 5 Settembre 2012 - 13:33 OLTRE 6 MESI FA

REGGIO CALABRIA – I giudici sottraggono i figli minorenni alle famiglie di ‘ndrangheta. Succede in Calabria, è un esperimento pedagogico/giudiziario senza precedenti. Lo sta portando avanti il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria: recidere alla radice il vincolo di sangue che cementa i rapporti familiari e pregiudica dall’inizio ogni chance di riabilitazione o alternativa possibile per i giovani cresciuti nella palude di un contesto mafioso irrimediabile. Padri, madri, nonni, zii, cugini rappresentano, soprattutto in certe zone della Calabria, la peggiore assicurazione su un destino esistenziale già segnato.

Il giudice Roberto Di Bella, da meno di un anno presidente del Tribunale dei Minorenni dove ha lavorato 13 anni come gip, ha affidato un ragazzo di 16 anni a un servizio sociale lontano dalla regione, nominando per lui un curatore speciale, a seguito del provvedimento “limitativo della potestà genitoriale” che nega ai familiari del ragazzo anche di avvicinarlo. A soli 16 anni, pur non essendo state raccolte prove sufficienti di reato, il giovane presentava un drammatico profilo di mafioso in erba, cui fra l’altro sembrava essersi precocemente rassegnato.

“E’ l’unica soluzione per sottrarre” il 16enne “a un destino ineluttabile, e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore di provenienza” spiegano i giudici. Sorpreso insieme ad altri giovani intorno alla carcassa di un’auto della Polizia Ferroviaria di Locri danneggiata in un attentato, era stato assolto dall’accusa di furto e danneggiamento. Ciò che era venuto fuori era però molto più preoccupante: padre ucciso in agguato mafioso, fratelli tutti condannati per omicidi e associazione mafiosa, gli amici che frequenta sono tutti pregiudicati, fa sempre tardi la notte e  a scuola non ci va più. La famiglia può solo nuocergli: “La madre non appare idonea a contenerne la pericolosità come comprovato dalla sorte degli altri figli”, e “neppure il contesto parentale allargato offre garanzie per l’educazione del giovane avendo la famiglia di appartenenza un ruolo di spicco nella criminalità organizzata del territorio di residenza”.

La nobilissima intenzione, quella di salvare cioè un ragazzo da un destino inesorabilmente tracciato, non è però esente da dubbi e perplessità. Li segnala anche Fulvio Scaparro, psicoterapeuta ed esperto di pedagogia e cura dei minori. Nel suo contributo sul Corriere della Sera, non nega l’equazione, intuitiva, per cui è l’ambiente criminogeno a favorire i comportamenti criminali e allontanare il giovane alla “influenza nefasta della pedagogia mafiosa” restringe la possibilità di comportamenti devianti e criminali.

Il problema è il come. Intanto è tutt’altro che scontato che provvedimenti come quello di Reggio Calabria possano essere assunti su larga scala. Poi, Scaparro si chiede se sia proprio “utile troncare i legami familiari immaginando per i ragazzi una sorta di rieducazione e di rinascita fuori dalla propria terra di origine”. Dovremmo farlo in Campania, in Sicilia, dovremmo immaginare un esodo di migliaia di ragazzi. Ma il punto che non convince Scaparro riguarda quella che ritiene una sorta di rinuncia, una specie di abdicazione a lottare contro le mafie lì dove prosperano. “Don Ciotti ci ha insegnato invece che occorre restare lì dove il fenomeno mafioso è endemico e contrastarlo con iniziative di risanamento dell’ambiente che coinvolgano i giovani, alla luce del sole e con il massimo risalto pubblicitario, visto che alle mafie piace agire nell’ombra”. Altro impedimento, diciamo così oggettivo, e non trascurabile: gli assistenti sociali, per paura, si danno malati quando sono incaricati di andare a prendere i figli fisicamente a casa di qualche mafioso.