Pisticci, due bambine violentate ma “non rovinate la festa”

di Riccardo Galli
Pubblicato il 14 Settembre 2020 - 10:00 OLTRE 6 MESI FA
Marconia di Pisticci, due bambine violentate ma "non rovinate la festa"

Pisticci, due bambine violentate ma “non rovinate la festa” (Foto da video)

Pisticci, due bambine violentate. Bambine, perché a 15 anni si è bambine. Chi sia stato e quanti siano stati lo cercheranno chi indaga e quali responsabilità penali ed eventuali condanne lo deciderà la magistratura.

Ma pare che ci sia stata una frase, un pensiero, un gesto di infima responsabilità  morale. Una frase terribile, oscena. Eppure a suo modo ovvia e conseguente in una cultura familistica-tribale che vive e sta comoda dentro di noi, un familismo tribale che ha colonizzato la terra della società una volta detta civile. La frase è “non rovinate la festa“.

“E’ LA FESTA DI UN MIO AMICO…”

La raccontano così giornali e tv, dopo che così è stata loro raccontata: un parente di una delle due bambine chiamato in soccorso arriva alla casa, alla villa della festa, qualcuno, dicono una donna, lo invita a non chiamare la polizia: “non rovinate la festa, è la festa di un mio amico”. C’è un’antologia in questa frase, un’antologia del sentir diffuso e promosso. 

PISTICCI, LE BAMBINE VIOLENTATE E LA SACRALITA’ DELLA FESTA

La festa, lo svago (e anche lo sballo) la società detta civile li ha assunti, li ha visti ascendere al cielo della sacralità. La festa è l’obiettivo e traguardo, la festa è un dovere verso se stessi, una modalità esistenziale che quando si realizza è blasfemia e bestemmia interrompere o turbare o, peggio, rovinare e sporcare. Non è una disadattata sociale la donna che ha pronunciato quella frase riportata dalle cronache da Pisticci, è una normale cittadina di quel mondo che questa estate ha ritenuto precetto da assolvere la discoteca o qualunque altro luogo e forma dove si potesse far festone.

IL SUPREMATISMO AMICALE

Attenzione poi al passaggio successivo del “non rovinate la festa”, il passaggio successivo è “è la festa di un mio amico”. C’è in questa aggiunta, difficile dire quanto consapevole o solo istintivo) un suprematismo. Sì, proprio come il suprematismo, cioè la supremazia di una razza o di un’etnia sulle altre considerate inferiori. Suprematismo amicale: il cerchio della mia tribù comprende gente che vale più di ogni estraneo.

Ed è solo questo suprematismo amicale che spiega come l’intoccabilità di una festa assuma un valore superiore a quello della violenza su due bambine. Sono estranee, non fanno parte del cerchio stretto della tribù, l’infamia ai loro danni è stato un incidente, da affrontare e risolvere in omertà, senza grane e dispiaceri per la “festa dell’amico mio”.

Domanda finale, alla fine della storia che viene da Pisticci: quanti, quanta di questa meravigliosa gente italiana contemporanea una frase così l’avrebbero pensata o gli sarebbe sfuggita dalle labbra? Quanti in analoghe circostanze avrebbero detto: “non chiamate la polizia..? La risposta, a tentate una onesta risposta, è per carità di patria indicibile.