Prato, i fratelli Pellegrini: affitto ai cinesi, incendio compreso

di Redazione Blitz
Pubblicato il 21 Marzo 2014 - 10:40 OLTRE 6 MESI FA
Prato, i fratelli Pellegrini: affitto ai cinesi, incendio compreso

Il rogo nel capannone di Prato (Foto Ansa)

PRATO –  Giacomo e Massimo Pellegrini sono i due fratelli che affittarono il capannone in cui morirono 7 cinesi. Per i due fratelli, che diedero un affitto “incendio compreso“, il 20 marzo è scattato l’arresto. Secondo le accuse, i Pellegrini sapevano che lo stabile non era sicuro. E già nel 2008, 2009 e 2010 altri loro immobili erano stati sequestrati per irregolarità nella sicurezza.

Non un tragico incidente dunque, ma una disattenzione che configura per i magistrati l’omicidio colposo.

Ora i Pellegrini si trovano agli arresti domiciliari, dopo aver tentato di occultare documenti all’indomani del rogo dello scorso dicembre in cui morirono 4 cinesi.

Tre cittadini cinesi, gestori di fatto della ditta, sono invece finiti in carcere: stavano preparandosi a riaprire un’altra ditta ed il pericolo, in questo caso, era dunque di reiterazione del reato. Un’altra fabbrica-dormitorio con le pareti di cartongesso, tra le quali vivere, lavorare ed eventualmente morire come i loro sette connazionali.

L’ordinanza in base alla quale polizia e guardia di finanza hanno eseguito le misure cautelari fa emergere anche particolari specifici sulle condizioni di lavoro alla ”Teresa moda”: dalle 13 alle 17 ore al giorno ad una cifra che oscillava tra i due ed i tre euro all’ora. Poi lo scampolo di vita nei loculi di cartongesso, tra stufette e fornelli. Dei tre cinesi arrestati due sono sorelle ed uno è il marito di una di esse: la coppia era nel capannone quando all’alba del primo dicembre scoppiò l’incendio, riuscendo a salvarsi.

Oltre ai due italiani e ai tre cinesi c’è una sesta persona, orientale, indagata: sarebbe il prestanome dei titolari. Ma la vera novità dell’inchiesta è costituita dalla misura cautelare applicata ai due italiani, che secondo il Gip sapevano e hanno evitato di mettere in sicurezza gli stabili affittati:

“Ci sono violazioni accertate così gravi e dannose che non c’è da chiedersi quali norme siano state infrante ma quante ne siano state rispettate”.

Marco Imarisio sul Corriere della Sera scrive:

Nella relazione su carta intestata venivano citate le uscite di emergenza ostruite, gli impianti elettrici privi di «minimi» requisiti di sicurezza, gli idranti all’esterno fuori servizio, il materiale combustibile stoccato «in forte prossimità» di quadri elettrici, faretti, fonti di calore. Il primo dicembre 2013 sette operai che in quel capannone «adibito a uso magazzino» lavoravano e vivevano, sono morti a causa di un incendio scoppiato poco dopo l’alba. I destinatari di quella relazione erano tra le quattro persone di nazionalità cinese arrestate ieri con l’accusa di omicidio colposo plurimo”.  

Già in occasioni passate gli immobili dei fratelli Pellegrini erano stati sequestrati:

“Oltre ai tre titolari della ditta e al loro rappresentate legale, di nazionalità cinese, sono finiti agli arresti domiciliari i fratelli Giacomo e Massimo Pellegrini, proprietari di quel capannone industriale e di molti altri ancora. Nel 2008, 2009 e 2012 alcuni loro immobili erano stati sequestrati: mancavano gli estintori ed erano stati costruiti vani adibiti a uso dormitorio. «Sulla base delle pregresse esperienze personali» scrive il giudice «dovevano essere pienamente consapevoli che simili trasformazioni edilizie non sono autorizzabili»”.

Un allarme rimasto inascoltato che dimostra come anche i fratelli Pellegrini fossero a conoscenza della situazione di scarsa sicurezza per gli “schiavi” nel capannone, scrive Imarisio:

“Nei giorni successivi al rogo, i fratelli Pellegrini parlano al telefono con vari interlocutori, cinesi e italiani. «Dobbiamo portare via della roba che è nella loro zona…», «Fai sparire tutto quello che è lì accanto», con riferimento ad alcuni macchinari. «Stampa un paio di copie, poi cancella» dice Giacomo a Massimo, parlando dei documenti «sulla situazione della fabbrica» dove è avvenuto il rogo. «Hanno organizzato, senza riuscirci, l’occultamento di materiale che avrebbe potuto certificare l’esistenza di rapporti d’affari con altri imprenditori cinesi sulla cui effettiva natura e liceità permangono molti dubbi»”.

Per i magistrati che indagano sul caso, il rogo non è stato un incidente:

«I reati per cui si procede non sono “incidenti di percorso” o fatti occasionali. Si tratta piuttosto di una vera e propria modalità di conduzione dell’impresa in cui l’unica regola osservata è stata quella di massimizzare il profitto». Le vittime dell’incendio, sei delle quali clandestine, dormivano e sono morte in una struttura abusiva di cartongesso lunga trenta metri, costruita nel punto più lontano dall’unica porta di accesso al capannone. Secondo la testimonianza dell’unico superstite di quella notte, guadagnavano 2-3 euro all’ora. Lavoravano in media tra le 13 e le 17 ore al giorno. Il riposo settimanale non era previsto”.