ROMA – Il cosiddetto Protocollo Farfalla fu un’operazione condotta in modo “superficiale” da “amici al bar”, tagliando fuori livello politico (i ministri vigilanti) e magistratura. In una parola: fuorilegge. Ne è convinto il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza, che ha espresso un duro giudizio sul patto siglato tra il 2003 e il 2004 dal Sisde, il servizio segreto civile, e il Dap, il dipartimento che gestisce le carceri, per raccogliere informazioni a pagamento dai detenuti mafiosi, all’insaputa di investigatori e inquirenti.
Gli “amici al bar” di cui si parla nel rapporto del Copasir, sarebbero l’allora capo del Sisde, il generale Mario Mori e i vertici del Dap, Giovanni Tinebra e Salvatore Leopardi. Sotto accusa anche il comportamento di alcuni agenti penitenziari. Per il Comitato, in sostanza, il Protocollo Farfalla si risolse in un completo fallimento, del quale rimane traccia in soli 13 documenti reticenti.
Il rapporto finale, presentato al Senato, è il frutto di una inchiesta svolta dal Copasir tra l’8 ottobre 2014 ed il 10 febbraio 2015. Assolto il servizio interno sugli altri due casi presi in esame, sempre riguardanti l’attività dell’intelligence su persone in carcere: le operazioni Rientro e Flamia.
IL CONTESTO, MAFIA PRESSA CONTRO 41 BIS – Farfalla si inquadra in un contesto storico in cui è forte la pressione mafiosa sul mondo politico affinché ammorbidisca le norme sul 41 bis, il regime carcerario speciale cui sono sottoposti diversi boss. Tra il 2002 ed il 2004 sono emersi inoltre segnali di saldatura tra movimenti criminali e terroristici, delineando un asse unitario contro il 41 bis. L’attenzione dell’ intelligence si è posata dunque sugli ambienti carcerari.
MORI E TINEBRA AVVIANO FARFALLA – In questo quadro nel corso del 2004 inizia Farfalla, con l’obiettivo da parte del Sisde di raccogliere informazioni, tramite il Dap, da otto detenuti (Buccafusca, Cannella, Rinella, Genovese, Angelino, Pelle, Di Giacomo e Massaro), sei dei quali al 41 bis. A promuoverla Mori e Tinebra, col capo dell’Ufficio ispettivo del Dap, Salvatore Leopardi e due uomini di fiducia di Mori. In un appunto del 21 luglio 2013, il Sisde esprime l’esigenza di avere contatti con i detenuti “al fine di sviluppare autonome e mirate azioni di intelligence, non intaccate da ulteriori interessi da parte di altri organismi”. Per il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato in questo modo la polizia penitenziaria, invece di informare la magistratura, avrebbe dovuto informare il Sisde. Mori ha negato questa interpretazione.
MINISTRI E MAGISTRATURA NON INFORMATI – Ma non è solo la magistratura ad essere stata tagliata fuori (il compito spettava per legge al Dap). Neanche i ministri di Interno e Giustizia dell’epoca (Giuseppe Pisanu e Roberto Castelli) sapevano nulla, come hanno riferito in audizione al Copasir. Non è stata rispettata la legge sui servizi allora in vigore che obbligava il Sisde a comunicare al ministro ed al Cesis tutte le informazioni in suo possesso. Quanto al Dap, per il Copasir, ha svolto un ruolo “non consono alle sue prerogative e fuori dal perimetro assegnato”. Farfalla è quindi fallita dopo circa un anno e nessuno degli 8 boss ‘attenzionati’ è diventato informatore dei servizi. Uomini di Dap, Sisde e magistratura, osserva la relazione, “sono stati distolti da attività più utili e produttive per l’Italia e per i cittadini”.
DAP AVEVA STRUTTURA INTELLIGENCE PARALLELA – E l’indagine del Comitato ha fatto emergere “una vera e propria struttura parallela di intelligence” del Dap, che raccoglieva informazioni sui detenuti al carcere duro. E’ stato l’ex ministro Castelli a riferire che “all’interno del Dap era stata costituita, a mia totale insaputa, una centrale di ascolto che intercettava i mafiosi”. L’attuale Guardasigilli, Andrea Orlando, ha confermato al Comitato la presenza di “profili di irregolarità amministrativa” in riferimento alla gestione dell’Ufficio ispettivo del Dap all’epoca in cui era diretto da Leopardi.
SU RIENTRO E FLAMIA REGOLARE AZIONE 007 – Per gli altri due casi considerati il Copasir assolve invece l’operato dei servizi. Rientro – svolta tra il dicembre 2005 ed il gennaio 2006 – ha riguardato Antonio Cutolo, fonte del Dap che diceva di avere elementi per catturare il boss della camorra latitante Edoardo Contini. La fonte si è poi rivelata inattendibile e l’operazione è finita. L’altro ha coinvolto Sergio Flamia, legato al mandamento mafioso di Bagheria. In questa occasione, osserva il Copasir, la collaborazione dell’uomo con l’Aisi ha dato importanti contributi investigativi.
PIU’ POTERI COPASIR – A conclusione il Copasir auspica la possibilità di accedere in modo diretto agli archivi dei servizi, l’opportunità che di ogni operazione condotta dall’intelligence vi sia “completa tracciabilità documentale” ed una norma più cogente per impedire che qualcuno rifiuti di essere ascoltato in audizione.
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