Renato Soru perde la causa: niente indennizzo di 40mila euro, il Corriere della Sera non lo diffamò

di Pierluigi Roesler Franz
Pubblicato il 30 Gennaio 2019 - 11:10 OLTRE 6 MESI FA
Renato Soru perde la causa: niente indennizzo di 40mila euro, il Corriere della Sera non lo diffamò

Renato Soru perde la causa: niente indennizzo di 40mila euro, il Corriere della Sera non lo diffamò

ROMA – L’ex governatore della Sardegna e fondatore di Tiscali Renato Soru ha perso dopo oltre 7 anni la sua battaglia giudiziaria per ottenere dal Corriere della Sera un adeguato indennizzo per l’articolo «Le sovvenzioni e i politici. Il sistema San Raffaele», pubblicato il 28 luglio 2011 e da lui ritenuto diffamatorio.

La 3^ sezione civile della Cassazione con decisione n. 2346 ha infatti confermato ieri il verdetto della Corte d’appello di Cagliari che aveva annullato la precedente condanna ad un risarcimento di 40 mila euro inflitta dal tribunale al Corriere della Sera e ai giornalisti Simona Ravizza e Mario Gerevini. Soru non sarà quindi risarcito perché i due giornalisti hanno legittimamente esercitato il loro diritto di cronaca e di critica riportando nell’articolo fatti riscontrati e di pubblico interesse.

Di seguito l’ordinanza. Corte di Cassazione 3^ Sezione Civile Ordinanza n. 2346 del 29 gennaio 2019 (Presidente Adelaide Amendola, relatore Emilio Iannello)

ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20515/2016 R.G. proposto da
Soru Renato, rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Macciotta, con domicilio eletto in Roma, via Paola Falconieri, n. 100, presso lo studio dell’Avv. Paola Fiecchi; – ricorrente –
contro
RCS Mediagroup S.p.A., Gerevini Mario e Ravizza Simona, rappresentati e difesi dagli avvocati Marcello Franco e Tommaso Arachi, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, via Crescenzio, n. 17/A; – controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Cagliari, n. 431/2016, pubblicata il 1 giugno 2016;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 novembre 2018 dal Consigliere Emilio Iannello.

Rilevato in fatto

1. Con citazione notificata il 17/5/2012 Renato Soru convenne in giudizio avanti il Tribunale di Cagliari la RCS Quotidiani S.p.A., oggi RCS Mediagroup S.p.A., nonché i giornalisti Mario Gerevini e Simona Ravizza, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni derivanti dalla pubblicazione, sul quotidiano «il Corriere della Sera» del 28 luglio 2011, alle pagine 16 e 17, di un articolo, dal titolo «Le sovvenzioni e i politici. Il sistema San Raffaele» asseritamente lesivo della sua reputazione, con l’utilizzo di termini e modalità espositive che, secondo parte attrice, escludevano la configurabilità della scriminante del diritto di cronaca.
Lamentò in sintesi che lo scritto riferiva circostanze false ed erronee relative all’attività da lui svolta, alla gestione dell’ospedale San Raffaele, ai finanziamenti regionali e ai bilanci della società Shardna da esso istante partecipata con quota maggioritaria, della cui cessione al predetto Istituto l’articolo faceva menzione. Secondo l’attore i giornalisti avevano fatto uso, maliziosamente, di accostamenti suggestivi, con intento denigratorio.
Nel contraddittorio dei convenuti, all’esito d’Istruzione documentale, il tribunale accolse la domanda, condannando i convenuti, in solido, al pagamento della somma di € 40.000, oltre interessi legali, a titolo di risarcimento del danno.
2. La Corte d’appello di Cagliari, con la sentenza in epigrafe, ha accolto l’appello interposto dei soccombenti e, per l’effetto, in totale riforma della sentenza impugnata, ha rigettato la domanda, ritenendo che i giornalisti abbiano, nella specie, legittimamente esercitato il loro diritto di cronaca e di critica riportando nell’articolo fatti riscontrati e di pubblico interesse.
La Corte ha invero rilevato che, dopo un resoconto dei fatti di cronaca giudiziaria che nell’anno 2011 avevano interessato la gestione del San Raffaele e il ruolo in essa avuto da Don Luigi Verzè e dal manager Mario Cal, i loro rapporti con Filippo Penati e con l’arch. Sarno, l’articolo affronta il tema che lega l’odierno ricorrente all’Istituto — ossia la vendita delle quote della Shardna S.p.A. da parte del Soru al San Raffaele — introducendolo con la frase «E spunta il caso Soru».
Secondo i giudici d’appello nel far ciò i giornalisti non hanno fatto alcun allusivo collegamento con il c.d. «sistema Penati» ma hanno semplicemente commentato quello che a loro è sembrato essere stato un cattivo affare da parte del San Raffaele, trattandosi di quote di una società che a distanza di pochissimo tempo «non valevano nulla»; si sono quindi interrogati sul perché e su quale fosse l’utilità di tale operazione commerciale, definita «stranissima», fatta dai manager dell’Ente milanese.
Ciò viene in particolare dimostrato, si rimarca in sentenza, dall’affermazione che introduce detto argomento, secondo la quale: «a tutt’altra categoria, invece, appartiene il rapporto con Renato Soru, ex Presidente della Regione Sardegna …».
Si è voluto in altre parole — osservano i giudici a quibus – esporre al pubblico che oltre al «Sistema San Raffaele» l’ente milanese procedeva anche ad effettuare investimenti che, seppure «ordinari», venivano posti in essere con criteri di superficialità e di antieconomicità e conseguente sperpero di denaro in parte di provenienza pubblica.
Quanto poi alle modalità con cui l’articolo è stato graficamente e tipograficamente proposto la Corte d’appello ha escluso possano in esse ravvisarsi accostamenti suggestionanti o un uso scorretto del sottinteso, attraverso una voluta utilizzazione di espressioni vaghe o allusive tali da indurre il lettore ad una diversa interpretazione dei fatti realmente accaduti.
Ha inoltre rilevato che l’espressione contenuta nel titolo («E spunta il caso Soru») «fornisce al lettore medio unicamente lo spunto per andare a leggere l’articolo nella sua interezza sollecitato in questo proprio dal posizionamento del testo rispetto al contesto».
3. Avverso tale decisione Renato Soru propone ricorso per cassazione con unico mezzo, cui resistono gli intimati depositando controricorso.

Considerato in diritto

1. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 595 c.p. nella interpretazione fornita dalla Corte di cassazione in merito ai criteri della verità e della continenza».
Lamenta che la Corte d’appello ha limitato l’analisi a due sole frasi quali: «e ora spunta il caso Soru»; «a tutt’altra categoria, invece, appartiene il rapporto con Renato Soru, ex Presidente della Regione Sardegna …», non avvedendosi che i cronisti, con la successiva affermazione secondo cui l’operazione era «stranissima», rendevano vana la distinzione espressa dalla prima frase, con ciò omettendo una complessiva valutazione del pezzo.
Rileva che «alcuni termini e locuzioni riportate nell’articolo oggetto di censura e nella stessa grafica, ovvero nel titolo, occhiello, sottotitolo e catenaccio, inducono … nel lettore la suggestione di un “sistema” di rapporti … non limpidi e leciti tra esponenti politici e il San Raffaele, inducendo l’accostamento dell’odierno attore [così nel ricorso, n.d.r.] nella tenuta di prassi comuni agli altri soggetti coinvolti nelle vicende meglio narrate nel contesto dell’articolo».
Trascrive quindi un ampio stralcio della sentenza di primo grado nel quale, argomentandosi sull’occhiello dell’articolo («I rapporti dubbi con l’architetto Sarno. E spunta il caso Soru») e poi sul c.d. catenaccio («Le biotecnologie. “Con noi ha fatto un grande affare”, così il manager Cal parlava dell’operazione con Soru»), si osservava come l’obiettivo perseguito era quello di «offrire al lettore una sintesi “accattivante”, che lo invogli a leggere l’articolo o che, almeno, gliene offra una brevissima sintesi».
Soggiunge ancora che l’analisi del contesto avrebbe consentito alla Corte d’appello di accertare come, con l’uso dell’aggettivo «strano» riferito all’«affare Soru», in grassetto, in tesi rappresentato dalle vicende relative alla cessione delle quote di partecipazione nella società Shardna, risultavano in concreto disattese le cautele apparentemente osservate con le frasi introduttive. Rimarca la valenza diffamatoria connotante l’aggettivo «pompati» con cui giornalisti qualificano i bilanci della società predetta.

2. La censura si appalesa inammissibile.
Dietro la prospettata violazione di norme (genericamente dedotta non essendo indicata l’affermazione in diritto o la regula iuris in concreto applicata che si assume in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie) il ricorrente, infatti, inammissibilmente, sollecita una nuova valutazione dei fatti, in punto di rispetto dei limiti da osservare per un legittimo esercizio del diritto di cronaca e critica giornalistica: legittimità ritenuta in sentenza alla stregua di motivato accertamento, sindacabile in questa sede solo nei ristretti limiti di cui al novellato art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ. (omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti: nella specie nemmeno dedotto) e non più per insufficienza o contraddittorietà della motivazione.
Non si lamenta invero, in ricorso, una erronea ricostruzione della regola di giudizio da applicare al caso (che cioè la Corte abbia ad esempio escluso, a priori, la necessità di rispettare la veridicità dei fatti attribuiti, ovvero di non eccedere i limiti di una continenza formale, sia pure in contesto di cronaca quale quello descritto), né si deduce un errore di sussunzione (predicabile ove, ad esempio, si fosse accertato in sentenza il superamento di detti limiti, ma nondimeno si fosse affermata la legittimità delle espressioni usate); quel che si deduce è piuttosto una erronea o lacunosa valutazione della fattispecie concreta, affermandosi come erroneamente postulata la continenza delle espressioni usate, laddove una auspicata diversa considerazione degli elementi offerti avrebbe sul punto, in tesi, potuto condurre a diversa conclusione.
Giova in proposito ribadire che non può ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ., la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito non di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia bensì di avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, giacché siffatta valutazione comporta un giudizio non già di diritto bensì di fatto, eventualmente impugnabile sotto il profilo del vizio di motivazione (v. Cass. 30/03/2005, n. 6653; 29/04/2002, n. 6224).
In questa medesima prospettiva va ribadito, con specifico riferimento al tema trattato, che la valutazione in concreto sugli aspetti relativi all’esercizio dei diritti di cronaca e di critica politica (sussistenza, legittimità e rispetto dei limiti ad essi consentanei) rientra nei compiti esclusivi del giudice del merito ed è soggetta al sindacato di questa Corte nei limiti sopra esposti (v. ex multis Cass. n. 841 del 2015).

3. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
Non si ravvisano i presupposti per la condanna dello stesso al pagamento di ulteriore somma a titolo di responsabilità processuale aggravata.
Ricorrono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.