Rossella, licenziata, insulta il capo su Facebook: gli dovrà dare 4mila euro

Pubblicato il 16 Gennaio 2013 - 19:59 OLTRE 6 MESI FA
Rossella, licenziata, insulta il capo su Facebook: gli dovrà dare 4mila euro

LIVORNO – Rossella Malanima, estetista di Livorno, mesi fa è stata licenziata dal suo datore di lavoro. Mesi dopo, è stata condannata a pagare 4000 euro per aver diffamato quel datore di lavoro che un bel giorno le ha dato il benservito. Tra un fatto e l’altro c’è di mezzo Facebook. Rossella, infatti, non si è limitata a sfogarsi con le amiche. Ha aperto il pc, si è collegata alla sua pagina, e ha scritto un paio di cosette sul suo ex posto di lavoro. Nella fattispecie, queste:“Quel centro estetico fa onco ai bai”, che in livornese significa all’incirca “non è igienicamente consigliabile”. Un amico poco dopo commenta: “Ma non ci lavoravi fino a ieri?”. “Sì, ma per fortuna non più”. E ancora: “E’ un albanese di m…”.

Chiuso Facebook, magari si sarà sentita più leggera. Peccato che qualche settimana dopo le arriva una querela: diffamazione a mezzo stampa. Ovvero la diffamazione “semplice” con in più l’aggravante di averla pronunciata “urbi et orbi”. E ora Rossella è stata condannata a risarcire il suo ex capo con 4mila euro, sentenza definitiva arrivata in Cassazione. La suprema Corte ha scritto con questa sentenza un principio che farà pensare tutti gli internauti: chi insulta su Facebook o su un qualunque social network, stia attento. Quegli insulti non cadono nel vuoto di un ipotetico mondo virtuale, ma sono visibili agli altri utenti, al nostro “pubblico”. E quindi, come nel caso di Rossella, sono punibili come diffamazione a mezzo stampa, esattamente come il giornalista che diffama tramite giornale, radio, tv o sito internet. Ecco un passaggio della motivazione della sentenza:

“E’ evidente che gli utenti del social network sono consapevoli – e anzi in genere tale effetto non è solo accettato ma è indubbiamente voluto – del fatto che altre persone possano prendere visione delle informazioni scambiate in rete. Infatti, è nota agli utenti di “Facebook” l’eventualità che altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso: trattasi dell’attività cosiddetta di “tagging”, che consente, ad esempio, di copiare messaggi e foto pubblicati in bacheca e nel profilo altrui oppure e-mail e conversazioni in “chat”, che di fatto sottrae questo materiale dalla disponibilità dell’autore e sopravvive alla stessa sua eventuale cancellazione dal social network. L’uso di espressioni di valenza denigratoria e lesive della reputazione dei profilo professionale della parte Civile integra sicuramente gli estremi della diffamazione alla luce del detto carattere pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network. Lo specifico episodio in trattazione va più esattamente qualificato come delitto di diffamazione aggravato dall’avere arrecato l’ offesa con un mezzo di pubblicità (fattispecie considerata al comma terzo dell’articolo 595 del codice civile ed equiparata, sotto il profilo sanzionatorio, alla diffamazione commessa con il mezzo della stampa)”.