Stato-Mafia, processo a Mario Mori. Pm: “Mancino tentò di inquinare le prove”

Pubblicato il 26 Marzo 2013 - 00:20| Aggiornato il 11 Novembre 2022 OLTRE 6 MESI FA

ALERMO – Mario Mori e Mario Obinu sono i due carabinieri del ros finiti a processo per “favoreggiamento aggravato alla mafia“. Il pm Nino Di Matteo ha parlato, durante la sua requisitoria, di “inaccettabili omissioni in nome di un’inconfessabile ragione di Stato”. Il pm Di Matteo ha anche accusato l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino di aver tentato di “inquinare le prove”.

Il mancato arresto di Bernardo Provenzano nel fallito blitz a Mezzojuso, Palermo, del 31 ottobre del 1995 è per Di Matteo solo uno dei pezzi della complessa storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Sullo sfondo della trattativa, il pm Di Matteo ha iniziato la requisitoria del processo ai carabinieri del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, per favoreggiamento aggravato alla mafia, collocando i due militari tra coloro i quali ”obbedendo a indirizzi di politica criminale per contrastare la deriva stragista, hanno ritenuto di trovare un rimedio assecondando la prevalenza dell’ala moderata della mafia, quella refrattaria alla strategia di contrapposizione frontale allo Stato realizzata con omicidi eccellenti ed eclatanti. Era necessario per questo garantire la latitanza a Provenzano”.

Cinque anni e oltre settanta udienze di un procedimento penale che lo stesso pm ha definito ”drammatico” hanno portato lo Stato a processare se stesso, a partire dalle dichiarazioni del colonnello Michele Riccio , che secondo l’accusa dimostrerebbero le responsabilità dei suoi superiori, Mori e Obinu, nel fallito blitz, fino a quelle di Massimo Ciancimino che hanno ”fatto tornare la memoria a tanti personaggi che quella storia l’hanno vissuta”.

Non sono mancati, ha spiegato il pm, i ”tentativi di strumentale inquinamento della prova” a partire dalle telefonate tra l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino e il consigliere del presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio: ”Questo è il processo nel quale Mancino ha palesato di non tenere in conto l’autonomia del vostro giudizio, cercando conforto nelle più alte cariche dello Stato”.

Tracciato il contesto, il pm è partito dai primi passi dell’indagine che ha portato al processo: le dichiarazioni del confidente Luigi Ilardo, mafioso della famiglia di Caltanissetta e confidente di Riccio, che indicò al colonnello il luogo di un incontro che sarebbe avvenuto a Mezzojuso con Binu Provenzano.

Il pm ha spiegato: “Quella di Ilardo è una storia davvero unica nel panorama criminale del nostro Paese, per certi versi incredibile. Fu ucciso a maggio 1996, cinque giorni prima del suo interrogatorio formale davanti alle autorità giudiziarie che lo avrebbe fatto diventare collaboratore. Un epilogo tragico e avvolto nel mistero. In quel momento le sue rivelazioni avrebbero portato alla consacrazione dal punto di vista giudiziario di quei rapporti che vedevano protagonista anche Marcello Dell’Utri e la formazione del partito Forza Italia. Nel 1995 si poteva scardinare quel sistema provenzaniano che dominò invece incontrastato le strategie del potere mafioso in Sicilia. Si poteva aprire la porta alla verità. La chiave, invece, è stata gettata lontano”.

In questo scenario, Mori ha giocato un ruolo da protagonista mettendo in pratica, secondo l’accusa, la ”strategia della confusione”, atta a ”intorbidire le acque e allontanare la magistratura dalla verità”.