Yara, Fikri: “Mie telefonate su Al Jazeera, le tradurranno in milioni”

Pubblicato il 13 Novembre 2012 - 15:32 OLTRE 6 MESI FA
I funerali di Yara Gambirasio (Foto Lapresse)

BREMBATE – “Non ho mai detto Allah, perdonami, non l’ho uccisa io. Dal Marocco a Dubai, quello che ho detto significa ‘Allah, fa che risponda’. Nel mondo un miliardo di persone parlano arabo. Perché non provano a mandare la frase su Al Jazeera?”. Così parla Mohammed Fikri, unico indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, in un’intervista al settimanale Oggi. Fikri lancia un appello affinché le sue parole vengano tradotte correttamente una volta per tutte e racconta alcuni particolari del suo arresto, con precise accuse: “Mi picchiarono per farmi confessare”.

La telefonata di cui parla Fikri è quella che lo fece arrestare nel dicembre del 2010. L’altra frase sospetta intercettata dagli inquirenti (“l’hanno uccisa davanti al cancello”) Fikri racconta che è stata estrapolata da una conversazione tra lui e la sua fidanzata, Fathia: “Fa parte di una telefonata in cui le spiegavo le domande degli inquirenti. Ed è stata lei a chiedermi se poteva essere stata uccisa davanti al cancello”. Ma, osserva Fikri, “carabinieri e pm di questa conversazione non mi hanno mai chiesto nulla”.

In Italia dal 2006, pavimentista, arrivò al cantiere di Mapello, dove i cani avrebbero segnalato il passaggio di Yara, il 26 novembre, giorno della scomparsa della tredicenne. Fikri ha raccontato di aver lavorato giorno e notte fino all’alba di sabato, con due sole soste per pranzo e cena, in un ristorante di un paese vicino.

“Dopo le 18 – è il suo racconto – nel cantiere siamo rimasti in tre. Io, il mio principale Roberto Benozzo e il guardiano. Alle 19 io e Benozzo siamo usciti per andare a cena e se qualcuno è tornato il guardiano dovrebbe saperlo”. Quel sabato Fikri ha poi acquistato un biglietto per tornare in Marocco: partenza prevista il 4 dicembre da Genova, della quale informò i carabinieri di Ponte San Pietro che lo ascoltarono la mattina del 3 dicembre. “Gli ho lasciato perfino i miei recapiti in Marocco e il giorno dopo sono partito. Non ho imbarcato nessun furgone bianco, ma la mia Golf. Il furgone era di mio cugino Mohammed che aveva comprato il biglietto una settimana prima di me”.

Poi la descrizione del suo arresto, nella quale lancia precise accuse agli inquirenti:

I carabinieri mi hanno detto che c’era un problema e dovevo tornare con loro in Italia. Ho fatto presente che a bordo c’era la mia auto con la mia roba e hanno risposto che ci avrebbero pensato loro. Mi hanno messo un cappuccio nero in testa e mi hanno portato a riva. Non vedevo niente, ero terrorizzato. A terra qualcuno ha sollevato il cappuccio e mi ha fissato. “E’ lui”, ha detto e ha riabbassato il cappuccio. Mi hanno caricato su un’auto e per tutto il viaggio mi hanno trattato da assassino. Andavano a 220 all’ora, anche di più. A mezzanotte eravamo a Bergamo, hanno cominciato a far domande, poi con 6 gradi sotto zero, sulle scale davanti al cortile della caserma mi hanno fatto spogliare. Ho tolto tutto, slip, calzini e sono rimasto nudo. Insistevano “confessa, Benozzo ha detto che sei stato tu! Ho preso un ceffone e un calcio sulla tibia, poi mi hanno portato in carcere”.

Il mattino dopo Fikri ha risposto a tutte le domande dei carabinieri e ha chiesto che quella frase venisse nuovamente tradotta: il lunedì, quando è stato liberato, è ripartito per il Marocco. Al suo ritorno credeva che fosse tutto finito “Ma l’incubo continua”. E conclude:

“In questa storia di vittima ce n’è una, si chiama Yara. Io sento di aver subito un’ingiustizia ma per fortuna posso difendermi e appena questo incubo finirà chiederò indietro tutto quello che mi è stato tolto. L’onore, il lavoro, gli amici e Fathia, la donna che dovevo sposare, e un anno fa, distrutta da questa storia, mi ha lasciato”.