Africa subsahariana, la grande madre dei migranti sempre più incinta

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 22 Giugno 2018 - 09:04 OLTRE 6 MESI FA
Africa subsahariana migranti

Centinaia di migranti a bordo di un gommone (foto Ansa)

ROMA – L’Africa subsahariana, la ‘grande mamma’ di tutti i migranti, è sempre più incinta. In quella regione che si estende a sud del deserto nel 1990, quando qui si giocavano i mondiali con Baggio e Vialli, [App di Blitzquotidiano, gratis, clicca qui,- Ladyblitz clicca qui –Cronaca Oggi, App on Google Play] vivevano 500 milioni di persone. Oggi sono il doppio: un miliardo. E tra altri trent’anni i miliardi saranno due. Numeri che nessun muro e nessun confine può pensare di contenere e numeri che dicono come la questione migrazioni vada affrontata su una scala molto più vasta di quella delle singole Nazioni.

Il tasso di natalità in quella regione dell’Africa è di 5.4 figli per donna. Qui da noi, nel Vecchio Continente, si fatica a tenere la parità fra nascite e morti e in Italia nascono sempre meno bambini mentre la popolazione invecchia. La stima poi che prevede 2 miliardi di abitanti a sud del Sahara per il 2050, conteggia una riduzione di quel tasso a 2.7 figli per donna nello stesso lasso di tempo e potrebbe quindi anche rivelarsi troppo bassa. Questi numeri, sommati alle pessime condizioni economiche dei Paesi di quella regione, tra i più poveri al Mondo, sono quelli che spingono le persone a partire e a lasciare le loro case.

Dal 1990 ad oggi il numero di migranti è cresciuto di pari passo al crescere della popolazione, passando da 15 a 25 milioni, e tenendo quindi pressoché costante la percentuale di partenze al 2,5% degli abitanti. Tra questi, secondo dati raccolti dal Pew Research Center, circa il 25% ha raggiunto una nazione europea. “Se la tendenza a lasciare il proprio paese restasse la stessa degli ultimi anni, il numero di migranti internazionali provenienti dall’Africa subsahariana crescerebbe da 25 a 54 milioni entro il 2050”, si legge in un recente documento pubblicato dall’ISPI, l’Istituto per gli studi di politica internazionale. E in Europa, mantenendo le proporzioni attuali, di questi quasi 30 milioni di migranti in più ne arriverebbero circa 7.5 milioni.

Non è quindi una questione di porti chiusi o di quote da spartire. E’ invece una questione da affrontare alla radice, e cioè andando ad intervenire su quelli che sono i motivi che spingono milioni di persone a rischiare la vita per raggiungere un nuovo Paese.

“Gli aiuti allo sviluppo – scrive Tommaso Carbone – risentono di un’altra contraddizione. Indispensabili per sradicare la povertà. Molto meno se l’obiettivo è fermare le migrazioni. Anzi, se indirizzati verso paesi poveri, possono avere anche l’effetto opposto, cioè incoraggiare le partenze.

Questo perché al di sotto di una certa soglia di reddito, all’aumentare della ricchezza aumentano solo la propensione ad andarsene e le risorse per farlo. Sembra un paradosso, ma quasi tutti gli esperti sono d’accordo. L’impulso a migrare da un paese si riduce solo quando il reddito pro-capite degli abitanti supera un livello compreso tra 7mila e 9mila dollari l’anno (a parità di potere d’acquisto). In Africa subsahariana, dove nel 2016 il reddito medio era inferiore a 3500 dollari l’anno, gli incentivi a partire restano altissimi”.

A questi freddi numeri vanno poi affiancate le violazioni dei diritti umani e le altre ragioni ‘senza prezzo’ che mettono in movimento milioni di esseri umani. Ragioni che comunque, monetizzabili o no, non sembrano al centro del dibattito sulle migrazioni che divampa in Italia, in Europa e anche negli Stati Uniti.