La maledetta Bala Murghab, la ‘fort apache’ afghana tra i talebani

Pubblicato il 17 Maggio 2010 - 19:06 OLTRE 6 MESI FA

Un avamposto isolato a 170 chilometri da Herat, in mezzo ad un deserto di pietre e polvere, preso di mira giorno e notte dai talebani e dai trafficanti di droga: per i militari, non solo italiani, la ‘Fob Columbus’ di Bala Murghab, dove oggi era diretto il convoglio Isaf colpito da un ordigno improvvisato che ha ucciso due soldati italiani, è più semplicemente ‘Fort Apache’, un fortino eretto in quel che resta di una struttura semidistrutta che fu dell’Armata Rossa.

A pochi chilometri dal confine con il Turkmenistan, la base avanzata nel villaggio di Bala Murghab, dove operano italiani, spagnoli, americani e afghani, ha un’importanza strategica per la coalizione internazionale: da lì si controlla l’intera valle ma soprattutto la Ring Road, l’anello stradale che, collegando tra loro le principali città, attraversa tutto l’Afghanistan.

Un punto nevralgico, come hanno segnalato più volte gli uomini dell’intelligence, che gli insorti e i trafficanti di droga da un lato, i militari afghani e le forze dell’Isaf dall’altro, si contendono battaglia dopo battaglia.

Lo sanno bene i militari della Brigata Sassari che all’inizio dell’anno hanno combattuto per tre giorni di fila: 72 ore ininterrotte di scontri a fuoco, con i soldati della Nato ripetutamente attaccati con colpi d’arma da fuoco e razzi da un centinaio di talebani.

Anche gli alpini della Taurinense, a cui appartenevano i due militari uccisi oggi e i due feriti, hanno avuto il loro battesimo di fuoco poco dopo esser arrivati in Afghanistan, agli inizi di aprile, proprio a Bala Murghab: come benvenuto i talebani hanno sparato in 48 ore una decina di razzi verso la base senza riuscire a colpire i nostri soldati.

Nelle loro informative gli 007 hanno segnalato più volte i rischi a cui quotidianamente è sottoposta la provincia di Bagdish (quella dove si trova Bala Murghab), una delle zone più calde dell’intera regione ovest assieme alle province di Farah e Shindand, anche queste in passato teatro di scontri costati la vita ai militari italiani.

Una zona dove sono presenti diversi gruppi di trafficanti di droga e anche esponenti qaidisti fuggiti dal Waziristan, in Pakistan, dove è in atto un pressing dell’esercito pakistano e americano.

Molto a rischio, nei ‘warning’ dell’intelligence, viene indicata anche la strada che da Herat conduce alla base avanzata, quella dove oggi è avvenuto l’attentato: una mulattiera di montagna molto accidentata dove è facile nascondere sotto i sassi degli ordigni improvvisati. Gli uomini dei servizi, inoltre, avevano segnalato più volte come il rischio di un aumento degli attacchi con gli Ied (Improvvised explosion devices) fosse “altamente probabile”.

Nelle zone a ridosso del confine con il Turkmenistan e con l’Iran, ma anche nelle aree che confinano con le province meridionali dove i talebani sono meglio organizzati, si è infatti registrato un “crescente attivismo” degli insorti che non necessariamente hanno come obiettivo gli italiani.

L’attacco di oggi viene anzi letto proprio in questo quadro: non un’azione mirata contro il nostro contingente bensì l’ennesimo tentativo degli insorti di colpire chiunque appoggi il governo locale e tenti di ripristinare condizioni minime di sicurezza nel paese. Una strategia, quella talebana, che va anche attribuita, secondo i servizi, alla necessità delle milizie che operano nel sud del paese, nell’Helmand in particolare, di sottrarsi all’offensiva americana.