Corea, traghetto affondato. Chiesta pena di morte per comandante. E in Italia?

di Redazione Blitz
Pubblicato il 27 Ottobre 2014 - 13:44 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Chiesta la pena di morte per Lee Jon-Seok, il comandante del traghetto affondato lo scorso aprile in Corea del Sud. Allora, in quell’incidente, morirono 293 persone. In gran parte studenti che andavano a scuola. Pena di morte che si giustifica (ammesso e non concesso che sia possibile farlo) con l’accusa di una strage aggravata da una serie di negligenze imperdonabili. E in Italia? Già, perché in Italia abbiamo un caso purtroppo molto simile, con un finale ancora tutto da scrivere. Il caso di Francesco Schettino. Nessuno chiede o auspica pena di morte, e neppure “pena esemplare”. Si chiede solo che si accerti l’eventuale responsabilità del comandante fuggito mentre barca affondava e che si commini pena adeguata. Ma di strada, da noi, ce n’è ancora tanta da fare.

COREA – Sono le 8:49 del 16 aprile 2014 quando un traghetto della Sewol, sovraccarico di studenti, vira in modo violento e si rovescia su un fianco. Il naufragio è rapido e inevitabile. Al comamdo di quella barca, responsabile della vita di oltre 300 persone (in gran parte studenti)  c’è il capitano Lee Joon-Seok. Al comando, non al timone. In quel momento la barca la guida una giovane di 26 anni, terzo ufficiale in grado.

Joon-Seok compie una serie di disastri. Dice ai passeggeri di rimanere al loro posto, e per questo molti di loro moriranno senza neppure tentare di fuggire. Poi le telecamere lo inchiodano in una scena simbolica e impietosa: attorno alle 11 sale in mutande su una scialuppa. E’ tra i primi a mettersi in salvo. Un capitano che abbandona la nave mentre 293 passeggeri muoiono.

In sei mesi in Corea succede un po’ di tutto: si toglie la vita l’armatore del traghetto. Soprattutto Seok, che su tutti i giornali del mondo è lo “Schettino di Corea” finisce a processo con l’accusa tremenda di “omicidio per negligenza aggravata”.

Ed è notizia di oggi 27 ottobre che l’accusa per lui ha chiesto la pena di morte. Joon-Seok, in un tardivo sussulto di dignità o forse nel tentativo disperato di mostrarsi pentito, spiega che lui quella pena di morte la merita. Respinge solo una delle accuse, quella di aver sacrificato volutamente gli studenti per salvarsi la pelle.

ITALIA – Sono le 21:45 del 13 gennaio 2012 quando la nave Costa Concordia sbatte violentemente contro uno scoglio poco a largo dell’Isola del Giglio. Al comando della nave c’è Francesco Schettino che da quel momento diventerà uno dei personaggi più discussi del mondo. Di più: Schettino diventerà quasi un aggettivo, il simbolo dell’uomo che per salvare se stesso mette a rischio la vita di centinaia di persone.

La cronaca di quanto succede dopo quello schianto è nota. Schettino che si rifugia su uno scoglio mentre dalla Capitaneria di Porto il capitano Gregorio De Falco gli intima in modo colorito e senza esito di tornare a bordo. Muoiono in 32, e la nave diventa uno sfregio al panorama dell’Isola del Giglio per i successivi due anni fino alla rimozione avvenuta con successo pochi mesi fa.

Anche Schettino finisce sotto processo. Ma le due date stridono. In Corea, in sei mesi, si arriva alla richiesta di condanna. In Italia dopo due anni e mezzo ancora no. Il processo è ancora in corso. Nel frattempo Schettino fa più volte parlare di se. Non disdegna la vita pubblica: interviene in convegni, partecipa con un appoggio esterno alla campagna elettorale di un candidato sindaco del suo Paese.

Chiaro, da qui a chiedere la pena di morte ce ne corre. Italia non la prevede ed è certamente un punto a favore della nostra civiltà. Fa meno onore che in due anni non ci sia ancora  una verità accertata. E fa anche meno onore una certa mancanza di pudore diffusa. Quella che consente a Schettino di autonarrarsi come eroe. Quella che consente a Domnica Cemortan, moldava che era in sala comandi al momento dello schianto, di scrivere un libro annunciando verità sconvolgenti che evidentemente non ha raccontato agli investigatori. Intanto, parenti delle vittime e non solo aspettano ancora giustizia.

Foto LaPresse