Filippine, sindaco e suoi uomini uccisi dalla polizia antidroga di Duterte

di redazione Blitz
Pubblicato il 29 Ottobre 2016 - 06:40 OLTRE 6 MESI FA

KORONADAL (FILIPPINE) – Ancora morti per droga nelle Filippine. Questa volta non si tratta di spacciatori o di tossicodipendenti. A restare uccisi nella feroce campagna antidroga promossa dal presidente Rodrigo Duterte sono infatti un sindaco e nove suoi uomini, ammazzati in una sparatoria con agenti antidroga.

Il primo cittadino della città meridionale di Datu Saudi Ampatuan, Samsudin Dimaukom, e altre nove persone sono stati uccisi venerdì mattina dopo che avevano aperto il fuoco da tre autovetture contro gli agenti di un posto di blocco nella provincia di Cotabato.

Dimaukom era stato annoverato da Duterte come tra i molti politici sospettati di essere coinvolti nei traffici di droga del Paese. Secondo la polizia, sono 3.600 le persone tra presunti spacciatori e utilizzatori di stupefacenti uccisi dall’entrata in carica di Duterte il 30 giugno scorso.

La mano dura, anzi, spietata di Duterte pare però piacere ai filippini. Un sondaggio pubblicato in questi giorni rivela che il 76 per cento della popolazione si dice “soddisfatto” dell’operato del presidente, nonostante l’ondata di critiche internazionali verso gli abusi della “guerra alla droga” dichiarata dal leader di Manila.

Mentre il resto del mondo scuote la testa di fronte al “Trump filippino”, per i suoi connazionali Duterte rimane una star. Il sondaggio, basato su risposte date a fine settembre da 1.200 interpellati, evidenzia un consenso granitico. Solo l’11 per cento si dice insoddisfatto, mentre il 13 per cento è indeciso.

Nell’isola di Mindanao, dove si trova il “feudo” di Davao, controllato da Duterte o dai figli da ormai tre decenni, la percentuale di consensi sale fino all’88 per cento. Cifre enormi rispetto a quelle del suo posato predecessore Benigno Aquino, considerato troppo debole e inefficace dagli elettori, specie nella lotta al crimine e alla corruzione.

Nessun presidente ha fatto parlare così tanto di sé nei suoi primi cento giorni. Se le promesse che si fanno in campagna elettorale vengono di solito disattese, Duterte è partito da subito mettendo in pratica la linea dura ampiamente prospettata prima del voto. A ogni comizio fomentava la sete di vendetta della folla verso i narcotrafficanti, parlando di “100 mila criminali” da uccidere. Un obiettivo che di questo passo è raggiungibile, considerati i sei mesi di mandato: in poco più di tre mesi al potere, la sua “guerra alla droga” ha causato almeno 3.500 morti.    

Le critiche internazionali non lo intaccano, anche perché chi lo ha votato sapeva benissimo che nei suoi anni da sindaco Duterte ha utilizzato lo stesso approccio (con almeno 1.200 esecuzioni sommarie). La popolazione spera che “il modello Davao” possa ora funzionare su scala nazionale, chiudendo un occhio sulla scia di sangue e apprezzando piuttosto i 22 mila arresti e gli oltre 700 mila sospettati che si sono consegnati pur di non essere uccisi dalla polizia o da vigilantes affiliati.