Il dramma dei cristiani in Iraq: “Siamo stranieri in patria”

Pubblicato il 2 Novembre 2010 - 14:43 OLTRE 6 MESI FA

“Come si fa a vivere così? Siamo braccati, perseguitati, sempre più isolati. Gli estremisti islamici ci vogliono uccidere. Il governo ci ignora. Il mondo pensa ad altro. Non ci resta che partire, fuggire, emigrare il più lontano possibile dall’Iraq”. Sono le parole di una famiglia irachena che aspetta il visto per andare in America. Più che un’intervista al corriere della Sera è uno sfogo, un lungo, sofferto grido di aiuto, di disperazione.

Nella famiglia Talal Yussef, residente in un appartamentino nel quartiere centrale di Qarrada, poche centinaia di metri dalla chiesa del massacro dove sono stati uccisi più di 50 cristiani, non credono più nella carità. Non pensano che qualcuno possa fare qualche cosa per loro. Lo sa bene Bushra, la mamma cinquantenne di Salam, 28 anni, ferito da quattro schegge alle mani e alle gambe. Salam era l’unico della famiglia presente in chiesa.

“La Chiesa irachena, tra le più antiche del Medio Oriente, si sta ormai sfaldando come neve al sole. Questo attentato è la classica goccia che fa traboccare il vaso. La gente scappa, parte. Tra poco dei cristiani iracheni resterà solo un vago ricordo qui nel Paese d’origine – spiega la madre –  Possibile che il premier sciita Nuri al Maliki, presenziando l’apertura della Fiera di Baghdad, non abbia voluto pronunciare neppure una parola di denuncia contro l’attentato e di simpatia per la sessantina di morti, i quasi 80 feriti? Possibile che i media filo-governativi non riportino che frasi di plauso per la polizia nel blitz contro i terroristi, mentre la carneficina ne incarna il fallimento e quando, secondo tanti testimoni, molte delle vittime potrebbero essere state colpite proprio dagli agenti?”.

“Nessuno qui pensa a noi. I cristiani sono stranieri in patria. Tanto vale partire”, esclama. Il messaggio è immediato: “Già dopo gli attentati contro le basiliche di Bagdad, nell’estate del 2004, la gente aveva cominciato a emigrare. I nostri vicini, gli amici dei miei figli. Noi eravamo rimasti. Ma un anno fa Salam, che lavora allo stesso tempo per la rivista della comunità cristiana locale e per una compagnia cargo Usa all’aeroporto internazionale, aveva chiesto la carta verde all’ambasciata americana. Ora spero proprio ce la concedano il prima possibile. Per me, Salam e mia figlia Sana, che ha 33 anni e tanta voglia di scappare”.

“I terroristi sono entrati nella basilica all’improvviso sparando in aria – racconta invece il figlio – Hanno chiuso i portoni alle loro spalle e ci hanno ordinato di buttarci a terra. Ho visto che uno sparava al prete sull’altare. Poi hanno tirato le bombe a mano mentre innaffiavano di raffiche i nostri corpi. Volevano uccidere il maggior numero possibile di persone. Gridavano: noi siamo lo Stato Islamico dell’Iraq. Dovete andarvene. Capito? Andarvene. Noi siamo musulmani e voleremo in paradiso, voi cristiani tutti all’inferno. Ovvio che avevano pianificato l’azione. Intendevano colpire una chiesa gremita di fedeli e fare un massacro. Ci sono riusciti in pieno. Io sono vivo per miracolo”.