C’era una volta un Paese meraviglioso, ricco, e politicamente stabile. Si chiamava Afghanistan. Almeno fino al 1979, l’anno in cui l’esercito dell’Unione Sovietica invase la zona.
A raccontare un Afghanistan diverso da quello che compare ogni giorno sulle pagine dei quotidiani è il New York Times che mette in discussione l’idea del Paese come ingovernabile e rievoca i tempi in cui Kabul era soprannominata la “Parigi d’Asia”.
Tra gli anni ’30 e i ’70, infatti, in Afghanistan c’era una monarchia, poi divenuta monarchia costituzionale, che aveva permesso, in parte, lo sviluppo economico e la modernizzazione. Le donne potevano non solo frequentare le università, ma anche andarci in pantaloncini.
Il direttore del Centro per gli Studi Afghani dell’Università del Nebraska, Thomas E. Gouttierre, racconta al Times degli anni trascorsi nel Paese: «Ho vissuto là tra il 1964 e il 1974. Era uno stato assolutamente governabile. E ho sempre pensato che fosse uno dei posti più belli del mondo».
Bellezza a parte, la questione è un’altra: l’immagine dell’Afghanistan come luogo “condannato” a una situazione di conflittualità ed ingovernabilità perpetua. Rappresentazione che costituirebbe un ottimo alibi “a priori” in caso di fallimento della missione militare. Si tratta di costruire un modello che giustificherebbe una ritirata strategica con una spiegazione del tipo: “Noi ci abbiamo provato ma là non c’è proprio niente da fare. Sono divisi in tante tribù che si uccidono da sempre e sempre continueranno a farlo”.
La storia dell’Afghanistan, invece, è diversa. Come afferma Said Tayeb Jawad, ambasciatore americano a Kabul: «Basta sintonizzarsi su un qualsiasi canale tv e trovi sedicenti esperti della storia e della cultura afghana. Tutta gente che là non ci ha messo piede, al massimo ha letto un paio di libri e ora pontifica sulle tribù afghane. New York è molto più tribale di tutto l’Afghanistan».
In realtà l’invasione sovietica, oltre a portare la guerra, ha causato la fuga dal paese di gran parte della classe dirigente, soprattutto di chi, per il Paese, aveva in mente un progetto di modernizzazione. È il caso, per fare l’esempio più noto al pubblico, dello scrittore Khaled Hosseini, che ha lasciato l’Afghanistan ad appena 15 anni.
E là sono rimasti i Talebani e chi non poteva permettersi di fuggire. E loro, come spiega l’esperto militare statunitense Frederick W. Kagan, «sono convinti che il Paese sia governabile. Perchè governarlo è quello che stanno cercando di fare. Noi invece stiamo pensando troppo a Karzai, quando invece dovremmo puntare molto di più su amministratori locali competenti e organico di polizia».