BEIRUT- “Vorremmo riabbracciarlo, ma siamo anche pronti a piangerlo”: queste le drammatiche parole di un appello rivolto dalla famiglia del padre gesuita romano Paolo Dall’Oglio ai suoi rapitori in Siria perché ne facciano sapere la sorte a un anno esatto dalla scomparsa, avvenuta il 29 luglio del 2013.
“E’ oramai passato un anno da che non si hanno più notizie di nostro figlio e fratello Paolo, sacerdote, gesuita, italiano. Tanto, troppo tempo anche per un luogo di guerra e sofferenza infinita come la Siria”. Padre Dall’Oglio, che ha vissuto decenni in Siria prima di esserne espulso nel 2012, era tornato nel nord del Paese, e precisamente a Raqqa, nelle mani dei jihadisti dello Stato islamico, per tentare una difficile mediazione per il rilascio di alcuni attivisti siriani fatti prigionieri.
Ma, secondo diverse testimonianze, ha finito per essere catturato egli stesso da questa organizzazione. Da allora diverse voci che lo davano per ucciso o in buona salute si sono rincorse, ma senza mai essere sostenute da prove concrete. “Ogni ipotesi è aperta”, ha detto dai microfoni di Radio Vaticana il nunzio apostolico in Siria, mons. Mario Zenari, lanciando anch’egli un “accorato appello” ai sequestratori perché diano notizie sulla sorte del gesuita.
Un appello, ha sottolineato l’ambasciatore della Santa Sede in Siria, che vale per diversi altri rapiti, stranieri e siriani, tra i quali quattro altri ecclesiastici: i vescovi ortodossi Bulos Yazigi e Yuhanna Ibrahim, un sacerdote armeno-cattolico e uno greco-ortodosso. Di recente alcuni organi di stampa libanesi hanno affermato che la liberazione di padre Dall’Oglio è negoziata con lo Stato islamico nell’ambito di un più ampio accordo per il rilascio anche dei due vescovi ortodossi. Ma nemmeno di questa notizia si può avere alcuna conferma, così come di quella riferita recentemente da fonti bene informate, secondo le quali il gesuita italiano sarebbe ancora tenuto prigioniero in una località della provincia di Raqqa.
“Chiediamo ai responsabili della scomparsa di un uomo buono, di un uomo di fede, di un uomo di pace – affermano nell’appello i familiari del sacerdote – di avere la dignità di farci sapere della sua sorte. Vorremo riabbracciarlo ma siamo anche pronti a piangerlo. Domani, 29 luglio, ad un anno dalla sua scomparsa, in tanti pregheremo e saremo vicino a lui, a tutti i rapiti, agli ingiustamente imprigionati e alle tante persone che soffrono a causa di questa guerra”. Padre Paolo si era recato a Raqqa quando lo Stato islamico (allora noto come Stato islamico dell’Iraq e del Levante, Isis) già controllava la città, dopo che le truppe governative si erano ritirate. Il religioso era arrivato nel capoluogo settentrionale dal più vicino valico frontaliero con la Turchia. Era la sua seconda volta in Siria dopo che era stato di fatto espulso dal regime di Damasco nel giugno 2012.
Per anni si era ritagliato un ruolo di primo piano nella regione desertica del Qalamun orientale, a nord della capitale, come fondatore della comunità monastica di Mar Musa, ospitata attorno a un antico monastero cristiano intitolato a San Mosé l’Abissino, dove svolgeva un’attività a sostegno del dialogo tra cristiani e musulmani. Il religioso non era mai entrato in contrasto con le autorità fino allo scoppio nel marzo 2011 delle inedite massicce manifestazioni popolari anti-regime, quando espresse le sue riserve sulla brutalità della repressione militare e poliziesca avviata dalle forze siriane.
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