ROMA – L’Alta Corte dello stato indiano del Rajastan ha dichiarato illegale il digiuno rituale con cui i membri della comunità Jain conducono se stessi a una morte volontaria quando considerano esaurito il proprio ciclo vitale sulla terra.
La sentenza, dalle vaste implicazioni giuridiche e morali – autodeterminazione e libertà di culto – stabilisce che l’antica pratica è una forma di suicidio contraria alle leggi indiane, ma dovrà passare il vaglio della Suprema Corte. La stessa che solo nel 1987 vietò il sacrificio induista con il quale le vedove si gettavano sulle fiamme della pira accesa per la morte dei mariti.
La notizia, riportata da un toccante reportage di Ellen Barry e Mansy Chosky per il New York Times, segnala la coincidenza temporale tra la decisione dei giudici e la morte sopravvenuta lo stesso 16 agosto del vecchio patriarca Manikchand Lodha nella città di Pune, non lontana da Mumbai. Steso sul suo letto, circondato dalla numerosa famiglia e dai moltissimi visitatori, aveva smesso di mangiare e bere, alla veneranda età di 92 anni. Applicandosi religiosamente nella sua santhara.
Tre anni fa una caduta lo aveva costretto a letto. Aveva iniziato col rinunciare, sempre seguendo i precetti religiosi sramana, a piaceri come il tè e il tabacco. Poi è stata la volta della sua amata televisione. Quindi le medicine, nemmeno il semplice materassino che alleviava il dolore alle suo ossa sofferenti. Il 10 agosto ha cominciato a rifiutare cibo ed acqua. Quando sei giorni dopo è morto la casa era addobbata a festa con bandierine arancioni e bianche.
La comunità jain, una declinazione dell’universo vedico, non è la più popolosa del continente ma è sicuramente tra le più influenti, più acculturate, con alti tassi di scolarizzazione e più ricche (circa il 24% del Pil privato). Per compiere il santhara ci vuole l’autorizzazione del guru e l’approvazione dei familiari.
“Guardateci, vi sembriamo forse in lutto – dice Sunita, la nuora di Mister Lodha – Stiamo celebrando perché qualcuno della nostra famiglia ha raggiunto qualcosa di grande. Abbiamo avuto la possibilità di conoscerlo. Questa è stata una grande fortuna”. (Ellen Barry e Mansy Chosky, New York Times).
Secondo i Jain l’ordalia santhara – parola introdotta 1500 anni fa e che in sanscrito significa letto d’erba – spezza l’involucro del karma che trattiene l’anima permettendo allo spirito di evadere dal ciclo rinascita-morte. I jain rimproverano le autorità per il divieto ma contestano tutto l’impianto del codice penale ispirato completamente da quello del colonizzatore inglese.
“Proprio come gli inglesi banalizzano la traduzione dal sanscrito per descrivere le nove varietà di amore con la sola parola ‘love’, così fanno con la morte”, ha commentato sul quotidiano Indian Express l’analista politico, e jain, Pratap Bhanu Mehta.