Sabato affonda il Titanic, un naufragio lungo cento anni

Pubblicato il 11 Aprile 2012 - 08:26 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Cento anni fa affondava il Titanic: il colosso dei mari scivolò negli abissi profondi che come da uno schermo sottomarino non hanno più smesso di proiettare all’infinito il film del mito, presenza inaggirabile dell’immaginario collettivo. Nel nome del gigante figlio di Urano che insieme ai fratelli fu sconfitto da Zeus che ne punì la disobbedienza era già scritta la fine dell'”inaffondabile”. Colpita a morte, subito, alla prima, dall’urto con un altro gigante, una montagna di ghiaccio, l’iceberg che nella notte del 14 aprile incrociò il destino di 2223 persone tra passeggeri e equipaggio: per 1517 di loro non ci fu scampo, per 706 l’insperata possibilità di raccontarsi protagonisti di un’epopea tragica. A 105 anni, Cyril Quigley è l’unico testimone vivente del varo del transatlantico nel 1911: di superstiti non è rimasto in vita nessuno. Ma l’iceberg fu responsabile al massimo di un tamponamento con una lacerazione non più grande di una porta d’appartamento: l’inabissamento va imputato alla White Line Star e ai difetti di progettazione. Delle 48 scialuppe per 60 persone ciascuna ne furono tolte in extremis 32, perché impedivano la visuale ai passeggeri: un altro “inchino” fatale, 1000 passeggeri erano condannati sin dall’inizio.

Il fatto che la tragedia coincise con l’inizio della diffusione universale dei mass media ha consegnato il naufragio al mito, paradigma di eroismi e meschinità umane amplificato a dismisura. Titanic era già sulle prime pagine dei rotocalchi prima di salpare. La Olympic, per dire, fu dipinta di grigio in modo da risaltare in tutta la sua brillantezza sui cinegiornali in bianco e nero dell’epoca. Il giorno del battesimo del Titanic, il varo a Belfast, in centomila stiparono il molo del porto, un terzo della città. Un “mondo Titanico” era quello che si affacciava, parola di Winston Churchill, che nel 1909, durante i lavori di costruzione aveva già presagito che “strani metodi, forze enormi, grandi combinazioni” avrebbero sconvolto l’umanità. Oggi, quasi a risarcimento dell’onta per aver materialmente preparato, fatte salve tutte le buone intenzioni,  una catastrofe indimenticabile, in quelli che furono i cantieri navali di Belfast si inaugura un museo di sei piani.

Ha la forma di una stella risultato della congiunzione di 4 prue di navi, pressoché identiche al gigante affondato. Al Titanic Signature Building è legato “il più grande progetto europeo di rinnovamento urbano” per cui, grazie alla memoria del Titanic, Belfast entra nel terzo millennio con un altro volto. Ma Belfast non è la sola ad incrementare la musealizzazione del ricordo. Luoghi della memoria sorgono a Southampton, da dove il Titanic salpò e che ha sacrificato nella tragedia oltre 600 figli: una grande parete ricorda i nomi di tutti i 600 marinai che lavorarono e morirono sulla grande nave. A Cherbourg, in Normandia, è visitabile la replica di una cabina di 1° classe nel museo del porto dove la nave fece scalo. A Halifax, sulla costa canadese, 150 lapidi ricordano i 150 naufraghi che riposano nella città di origine. A Pidgeon Tree in Tennessee un nuovo museo ricostruisce gli ambienti della nave. Ma la proposta più suggestiva è quella di Robert Ballard che vorrebbe trasformare il relitto da lui scovato nel 1985 nel museo sottomarino più grande del mondo. Un’idea degna del James Cameron “king of the world”, che per ora si è fermato alla aggiunta della terza dimensione al suo kolossal: un’occasione per monetizzare ulteriormente il centenario. Tuttavia, riportare la nave in superficie, come è nei progetti per non lasciare che tutto venga distrutto è impresa di una difficoltà appunto titanica.

Il relitto giace sprofondato di 18 metri nel fondo sabbioso a 4000 metri di profondità: lasciarlo giù o tirarlo in superficie significherebbe comunque la sua distruzione definitiva. Indistruttibile resta, però, il fiorente mercato dei ricordi della tragedia. All’asta dei memorabilia c’è sempre chi offre di più. Dal medaglione del milionario George Dunton, alla tazza recuperata sul ponte del Titanic ed esposta al Merseyside Maritime Museum di Liverpool. Il portasigari del capitano Smith (no, non era un Cuor di Leone ma non va confuso nemmeno con lo Schettino di turno) vale 30 mila euro. Una misteriosa collana superstite con dedica “Amy” in brillanti vale 150 milioni di euro. Con 400 euro  ci si porta a casa la scatoletta di metallo porta sapone in uso nelle toilette. Il biglietto del violinista Wallace Hartley, componente dell’orchestra più imperturbabile della storia, reca apprezzamenti gentili verso la high society che gremiva la prima classe: vale 150 mila euro.

La storia, le testimonianze, i documenti hanno fatto luce anche sulla presunta discriminazione per censo nelle operazioni di salvataggio. Fu il dedalo labirintico dei corridoi la causa principale del ritardo fatale con cui moltissimi passeggeri di terza classe non riuscirono a salvarsi. D’altra parte, “la livella” della morte non risparmiò nemmeno qualcuno dei gentiluomini, alcuni fra i più ricchi del pianeta. Non mancarono atti di eroismo e meschine condotte, come la fuga dell’armatore. Meglio ricordare l’inappuntabile e signorile commiato di Benjamin Guggenheim, erede di un impero minerario. Accompagnata l’amante francese alla scialuppa di salvataggio numero 9 e intuita l’impossibilità di ulteriori salvataggi, ordinò il tuxedo al cameriere cui impose a sua volta di indossarlo. Si fece servire un buon cognac e un grosso sigaro. Se dobbiamo morire, facciamolo da gentiluomini.