Usa. Mary Bonauto, l’italoamericana artifece nozze gay negli States

Pubblicato il 28 Giugno 2015 - 09:37 OLTRE 6 MESI FA
Mary Bonauto

Mary Bonauto

USA, WASHINGTON – Se oggi sono permessi i matrimoni gay in tutti gli Stati Uniti il merito è di una un’avvocatessa italoamericana di 54 anni, Mary Bonauto. È stata lei a far arrivare di fronte alla Corte Suprema federale i casi che venerdì hanno permesso di abolire in tutti e 50 gli Stati dell’Unione il divieto di nozze gay.

Ed era stata lei nel 2003, quando praticamente nessuno lo credeva possibile, a convincere la Corte Suprema del Massachusetts che impedire alle coppie dello stesso sesso di sposarsi era una discriminazione incostituzionale, portando così alla prima legalizzazione del matrimonio gay negli Stati Uniti.

«La decisione della corte del Massachusetts fu controversa, coraggiosa e corretta: sosteneva che il matrimonio è un’istituzione sociale vitale, che la costituzione tutela la dignità e l’uguaglianza di tutte le persone e vieta di creare cittadini di seconda classe, – dice al Corriere – è lo stesso tipo di ragionamento che ha fatto adesso la Corte Suprema federale».

Nipote di italiani («La mia nonna materna era una Spinelli e viveva a New York, dove lavorava in una fabbrica di materassi. Suo marito, mio nonno, è arrivato negli Usa da Sarno: il suo cognome era “Bonaiuto”, ma fu americanizzato. Io e i miei fratelli avevamo una vera riverenza per loro»), è responsabile della strategia legale della Gay and Lesbian Advocates and Defenders (Glad), un’associazione non profit di Boston. Ha iniziato a rivolgersi ai tribunali per combattere la discriminazione di gay e le lesbiche nel 1990, quando le rivendicazioni del movimento Lgbt ruotavano ancora intorno alla crisi dell’Aids, passavano principalmente dalla politica e il matrimonio era l’ultimo pensiero degli attivisti.

Non delle coppie gay: all’inizio infatti Bonauto ha rifiutato di rappresentare molti semplici cittadini che le chiedevano di fare ricorso per sposarsi: «Ho detto un sacco di no e non è che mi piaccia farlo – ha raccontato – ma non era assolutamente il momento giusto. Non ho nessun rimorso in proposito». Aveva ragione: i ricorsi portati da altri avvocati alla Corte Suprema delle Hawaii nel 1993 non solo non ottennero il sì alle nozze, ma dettero il via a una feroce controriforma che sfociò nel «Defense of Marriage Act», il famigerato Doma che definiva il matrimonio esclusivamente come un’unione tra un uomo e una donna.

Alla fine degli anni 90, però, Bonauto ha iniziato a costruire una strategia legale fatta di piccoli passi, aiutando alcune coppie gay e lesbiche del Vermont a fare ricorso per chiedere licenze di matrimonio e affrontando le critiche della parte «politica» del movimento gay, che temeva nuove reazioni negative alla loro battaglia legale. Strategia che, dopo i primi insuccessi, ha portato alla sentenza del novembre 2003 che ha legalizzato le nozze gay in Massachusetts: una vittoria decisiva per gli avvocati di Glad e il movimento per i diritti civili che si era cristallizzato intorno a loro. Quando il 17 maggio del 2004 vennero celebrati i primi matrimoni, Mary Bonauto dovette arrivarci scortata dalla polizia.

Ci sono voluti altri 5 anni perché un altro Stato, la California, legalizzasse le nozze tra persone dello stesso sesso, ma il lavoro dell’italoamericana ha segnato la strada per tutti. ”Quando le coppie dello stesso sesso hanno iniziato a sposarsi, le paure di chi era contrario hanno cominciato a diminuire: sempre più persone hanno visto che il matrimonio era una cosa positiva per gli omosessuali e i loro figli, e che non toglieva niente agli altri”, spiega oggi Bonauto.

Tra le coppie che hanno potuto celebrare il rito man mano che gli stati legalizzavano le nozze (sono stati 37 a farlo prima di venerdì) ci sono anche lei e la moglie Jennifer Wriggins, professoressa di Legge all’Università del Maine, dove vivono insieme alle due figlie gemelle. Alla fine, grazie anche alla sentenza che nel 2013 ha dichiarato incostituzionale il Doma, Mary Bonauto ha potuto presentarsi di fronte alla Corte Suprema federale, ad aprile, per l’ultima arringa della sua lunga battaglia. Venerdì la sentenza che l’ha fatta entrare nella storia.