Apple e le altre: quando il manager è insostituibile. Almeno per gli analisti

Pubblicato il 19 Gennaio 2011 - 12:43 OLTRE 6 MESI FA

Steve Jobs

Nel linguaggio della teoria aziendale si chiamano asset infungibili: sono i manager che non sono solo manager, ma leader difficilmente sostituibili per il loro apporto che va al di là della semplice organizzazione. Sono amministratori delegati che quando lasciano il loro posto scatenano il crollo del titolo in Borsa e il panico negli investitori.

Un esempio di storia recente riguarda la Apple: dopo che Steve Jobs ha annunciato di prendersi una pausa per “concentrarsi sul suo stato di salute”, ancora grave dopo il tumore al pancreas nel 2003 e il conseguente trapianto, a Wall Street il titolo ha perso diversi punti. E questo nonostante Apple sia ormai preparata ad affrontare l’assenza del suo fondatore, dopo essere stata presa alla sprovvista la prima volta.

Steve Jobs è la dimostrazione che una persona può fare la differenza. “Steve Jobs è il mio migliore amico e lo amo teneramente”, disse Larry Ellison, leader della Oracle, al San Jose Mercury News nel 2001. “È una delle persone più rimarchevoli del pianeta. Fonda la Apple. Lo cacciano, con una delle decisioni sulle risorse umane più sbagliate dai tempi in cui i francesi cacciarono Napoleone. La Apple si disintegra. Steve torna e la salva quando l’azienda era ormai alla canna del gas”.

Era allora il 2001. Dopo vennero l’iPod, l’iPhone, l’iPad. E i tempi in cui informatica e computer erano0 sinonimo di Microsoft diventarono solo ricordi. Jobs portà in una dozzina d’anni la capitalizzazione di Apple a centuplicarsi. Ora la notizia di un nuovo male, e di una nuova assenza, fanno tremare gli investitori.

Del rest lui stesso è consapevole della propria importanza. Lo ha dimostrato, per fare un esempio, alla presentazione dell’iPhone: “Abbiamo rivoluzionato l’industria dei computer e quella della musica. Ora trasformiamo l’industria dei telefoni”, disse. In molti pensarono ad un’esagerazione narcisistica. Ma dovettero ricredersi.

La ricerca di Jobs sulla tecnologia, sul senso complessivo delle innovazioni, fanno parte del suo personale modo di lavorare che è diventato parte di una cultura aziendale. Quella stessa cultura che lui ha instillato insieme ad un senso di squadra che ricorda ogni volta che scrive ai dipendenti di Apple, cominciando sempre le sue lettere con la parola “Team”, squadra.

Un manager “insostituibile” in casa nostra è, secondo il Sole 24 Ore, Sergio Marchionne. “Mr Pullover è considerato dagli operatori l’attuale vera anima del gruppo automobilistico. Il suo eventuale abbandono -conferma Luca Ramponi, direttore investimenti di Aureo gestioni sgr – darebbe seri problemi al titolo, sia nel breve sia nel lungo periodo. In una situazione di grave crisi, è stato per esempio abile a cogliere l’opportunità di mettere un piede negli Stati Uniti; cioè in una delle economie dove verrà costruita e sviluppata l’auto del futuro. Si tratta di una mossa che lo ha connotato come leader e non come semplice manager. Senza dimenticare la sua abilità a corteggiare i mercati, soprattutto quelli finanziari, e dialogare con gli stakeholder”.

Proprio il ruolo pubblico è essenziale per recitare la parte di leader. “Ci sono dei casi – ricorda al Sole 24 Ore Carlo Alberto Carnevale Maffé, docente di strategia aziendale alla Bocconi – in cui il manager è un soggetto importante per l’azienza, addirittura indispensabile. Tuttavia, magari per la sua precisa volontà di mantenere un basso profilo, non è conosciuto ai più; non riveste, cioè, la parte di garante del gruppo verso l’esterno”. E, quindi, appare – seppure erroneamente – meno rilevante. Un esempio tipico è Michele Ferrero: non può negarsi che lo sviluppo del gruppo sia da attribuirsi in gran parte a lui. E tuttavia, è poco conosciuto ai più. «Situazione agli antipodi di quella di Giorgio Armani che, al contrario, costituisce il vero appeal del gruppo da lui fondato”.

Un altro caso di manager il cui valore va oltre la semplice capacità di gestire è quello di Alessandro Profumo. Tra il 20 e il 23 settembre 2010, giorni in cui si è concretizzata l’uscita di scena del banchiere Unicredit, il titolo a Piazza Affari è sceso da 1,94 a 1,83 euro: un calo del 5,7 per cento. Oltre all’incertezza sulla nuova dirigenza e alla dinamica dell’operazione, il tonfo fu sicuramente dovuto anche alla considerazione che non si trattava solo dell’uscita di un manager, ma dell’addio di colui che, secondo quanto scrive il Sole 24 ore, “aveva creato la prima grande banca transfrontaliera italiana e che, fino ad allora, aveva tentato di garantire l’autonomia della stessa dalla politica”.