Art. 18, dubbi dei giudici: “Reintegro? Ci saranno sentenze discordanti”

Pubblicato il 7 Aprile 2012 - 20:53 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – “Manifesta insussistenza”. Questo è ciò su cui i giudici del lavoro saranno chiamati a decidere per il reintegro dei licenziamenti per motivi economici. Una riforma dell’articolo 18 operata dal governo di Mario Monti che ai magistrati del lavoro non piace. Rita Sanlorenzo, magistrato della sezione Lavoro della Corte d’Appello di Torino, spiega al Corriere: “Credo che quella formula sia il frutto di un compromesso. L’obiettivo era mantenere il deterrente del reintegro ma con l’intenzione di confinarlo in un ambito molto, molto residuale. Il guaio è che alla fine si complicherà la vita del giudice e soprattutto del lavoratore che cerca di far valere i suoi diritti”. Il rischio sarà quello di sentenze date su criteri soggettivi e dunque con esiti diversi.

Sanlorenzo ha spiegato che “in generale l’onere della prova spetta al datore di lavoro, è cioè lui che deve dimostrare che ha licenziato perché, ad esempio, ha un calo di fatturato oppure bisogno di rivedere la sua organizzazione. Ma non può essere certo lo stesso datore di lavoro a dimostrare che la ragione che lo ha spinto a licenziare è di manifesta insussistenza. Sarebbe un assurdo logico prima ancora che giuridico. E allora sembra che l’onere della prova venga trasferito di fatto al lavoratore. Che però non ha certo gli strumenti, perché è estraneo alle dinamiche dell’azienda e ai suoi aspetti organizzativi”.

Insomma una situazione affatto facile, soprattutto per il rischio di mancanza di oggettività, come sostiene la Sanlorenzo: “Quello che per me è manifestamente insussistente, per il mio vicino di stanza non lo sarà. Una lotteria che scarica sulla giurisprudenza quella che dovrebbe essere una responsabilità politica”.

Anche Sergio Mattone, ex presidente della sezione Lavoro della Cassazione, spiega: “Alla fine la manifesta insussistenza diventa un ostacolo in più per il lavoratore che vuole il reintegro. Scaricare l’onere della prova sul lavoratore è come obbligarlo a reclutare ricercatori, psicologi, economisti per dimostrare che quei motivi sono manifestamente insussistenti. Ve lo immaginate voi? Da regola, il reintegro diventerà un’eccezione, una rarissima eccezione”.

Mattone è convinto di ciò che afferma, e porta a dimostrazione delle sue dichiarazioni un precedente: “Le sezioni unite dovevano decidere sul licenziamento di un dipendente. Lui sosteneva che l’azienda avesse più di 15 dipendenti e quindi dovesse scattare la tutela dell’articolo 18. L’azienda diceva invece che i dipendenti erano meno di 15 e quindi quella tutela non era prevista. Alla fine fu stabilito il principio di prossimità, cioè l’onere della prova spetta a chi è più vicino al fatto da dimostrare. Un principio sacrosanto che però in questo caso diventa impossibile da estendere”.

Il presidente della sezione Lavoro del Tribunale di Milano, Piero Martello, ha detto: “È evidente che una valutazione approfondita richiederà del tempo, ma credo che con quella formula si voglia indicare la palese pretestuosità dei motivi addotti per il licenziamento. La sussistenza o c’è o non c’è, i motivi addotti dal datore di lavoro o sono provati oppure no. L’uso di formule generali e generiche accresce la supplenza dei giudici, ed è meglio non sollecitarla”.

Per Martello le considerazioni possibili sono tre: “Le leggi sul lavoro nascono con il dichiarato obiettivo di tutelare la parte più debole, cioè il lavoratore. Ma queste modifiche finiranno per appesantire e rendere più difficile il nostro compito. Fermo restando che il processo deve valutare le ragioni di entrambe le parti, lavoratore e datore di lavoro”.