Cassa integrazione e mobilità obbligatoria per gli statali

di Warsamé Dini Casali
Pubblicato il 27 Ottobre 2011 - 11:27| Aggiornato il 17 Aprile 2020 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Anche il dipendente pubblico potrà essere parcheggiato in cassa integrazione. E’ scritto nero su bianco sulla famosa lettera con cui Berlusconi ha tranquillizzato l’Europa, almeno fino a dicembre, Lega permettendo. Che la norma venga approvata, insieme a quella dei licenziamenti facili, è tutto da dimostrare, il Governo sembra troppo debole per una riforma di questa portata. Però, l’immagine dello statale inamovibile e del mito del posto fisso, così  rischiano di evaporare con un tratto di penna.

Il Governo ha già confermato il blocco delle assunzioni e della contrattazione nel pubblico impiego fino al 2014. Con la lettera si certifica la volontà, già prevista nella manovra di luglio e che era stata accantonata, di dar seguito all’impegno di rendere “effettivo con meccanismi cogenti/sanzionatori” lo smantellamento in tre mosse della serie di vincoli che facevano dello statale un monolite lavorativo. La mobilità diventa obbligatoria. La cassa integrazione viene messa a disposizione con conseguente riduzione salariale del personale. Viene superato il concetto delle dotazioni organiche.

In concreto. Con mobilità obbligatoria si intende che verrà utilizzata al massimo la misura della cosiddetta “messa a disposizione” del personale della Pubblica Amministrazione per il trasferimento, una norma prevista dalla legge 165/2001 ma mai applicata. Chi è inserito tra il personale messo a disposizione perché eccedente, percepisce 2 anni di stipendio base: dopo questo periodo, se non accetta o non viene trovato un altro ricollocamento, può essere licenziato. La norma non è stata praticamente mai applicata perché le amministrazioni raramente dichiarano che il personale è in esubero rispetto alle dotazioni organiche. Un paragrafo della lettera, “modernizzazione della PA”, è dedicato proprio al superamento del concetto di dotazione organica per rendere effettivi i trasferimenti.

In generale la tendenza è che sono molto poche speranze per chi cerca un impiego statale. Partito dalla Grecia, il virus dei congelamenti salariali, dei tagli agli stipendi e al personale pubblico, colpisce tutta Europa e anche quelle isole felici in cui i conti pubblici non sono in rosso, come il Lussemburgo. “Gli statali sono un obiettivo facile per i ministri delle Finanze che provano a ridurre i deficit in maniera rapida”, accusa uno studio della Ces, Confederazione europea dei sindacati. Ma c’è anche una strategia dietro, spiega Ronald Janssen della Ces: “Indurre il settore privato a fare lo stesso, a contenere i salari, perché viene meno il ruolo di riferimento degli stipendi pubblici e perché si legifera in modo da indebolire i sindacati e la contrattazione collettiva”. Il blocco degli stipendi è diventata prassi in mezza Europa, e si traduce, tenendo conto dell’inflazione, in una riduzione mascherata dei salari.

Una tendenza inarrestabile? Se progressivamente la legislazione continentale si avvicina a quella più liberista dei paesi anglosassoni, da Londra uno studio preso in considerazione dal governo Cameron, alza ancora di più il tiro sulla flessibilità in uscita e la libertà di licenziare, soprattutto nel settore pubblico. Questo studio indica la possibilità di licenziare senza indennità chi è poco produttivo. Una bomba sulle norme che regolano il lavoro che cancellerebbe l’attuale sistema del cosiddetto “unfair dismissal”, ovvero il licenziamento senza giusta causa. Nel Regno Unito è già una prassi: il datore di lavoro si accolla i danni riconosciuti al dipendente. Ciò è considerato troppo oneroso per le imprese e letale per incrementare la produttività. L’obiettivo dichiarato, specie nella Pubblica Amministrazione, è liberarsi dei fannulloni per lasciare spazio ad aspiranti impiegati più motivati e che rendono di più in termini di efficienza e produttività. A Downing Street lo studio piace: Cameron dovrebbe superare l’ostilità al provvedimento dei liberali suoi alleati, oltre a una prevedibile sollevazione di piazza. Intanto non è più un tabù parlarne. Come sostiene giustamente il giuslavorista Ichino in Italia, parlare di maggiore flessibilità in uscita (leggi licenziare) non può essere un tabù. Ma, infine, di violazione in violazione, quanti altri tabù dovranno cadere?