Cesare Romiti, a 90 anni: Cuccia e Agnelli grandi, Berlusconi e Monti delusioni

Pubblicato il 24 Giugno 2013 - 05:12| Aggiornato il 20 Aprile 2020 OLTRE 6 MESI FA
Cesare Romiti, a 90: Cuccia e Agnelli grandi, Berlusconi e Monti delusioni

Cesare Romiti (a ds) con Gianni Agnelli

Cesare Romiti, che fu amministratore delegato e poi presidente della Fiat per 22 anni, ha compiuto 90 anni il 24 giugno e è nella condizione ideale per guardare indietro per dire quello che pensa, o quello che vuole, senza grandi contraccolpi:

  • detesta Romano Prodi,
  • gli piace Matteo Renzi,
  • Berlusconi lo ha deluso,
  • Mario Monti lo ha deluso,
  • continua a avercela con Umberto Agnelli e con Carlo De Benedetti,
  • ha di Gianni Agnelli una idea molto ammirata e poco convenzionale,
  • ha stima per il successore ed erede,  John Elkann,
  • nega anche che fu Enrico Cuccia, per il quale conserva venerazione inalterata, a mandarlo in Fiat;
  • continua a essere convinto che il capolavoro della sua vita sia stata la marcia dei 40 mila che cambiò la storia della Fiat e anche dell’Italia.

 

Intervistato per il Corriere della Sera da Aldo Cazzullo, ha parlato di tutto, dall’ingresso degli americani a Roma, mentre, già ventenne, lui usciva da Messa con la mamma, al futuro dell’Italia, sul quale è ottimista.

Ecco alcune delle domande e risposte più interessanti:

Qual è il politico che ha stimato di più?

«Ugo La Malfa. Me lo presentò Cuccia, che l’aveva in grande considerazione».

Tra i presidenti del Consiglio?

«Uno era Spadolini. Mi piacevano il suo patriottismo, la sua dirittura morale e la sua ingenuità».

Quale giudizio storico darebbe oggi di Cuccia?

«Cuccia era un uomo dall’intelligenza fuori dall’ordinario. Uno capace di imporre il disegno di Mediobanca a Raffaele Mattioli, di cui era un dipendente. Grazie a Cuccia si salvarono imprese come l’Ansaldo, la Montedison, la stessa Fiat».

Che ricordo ha di Gardini?

«Ottimo. Era uno dei miei più cari amici. Nei giorni drammatici di Tangentopoli fu tradito dalla famiglia, che non gli fece avere i documenti di cui aveva bisogno. E un romagnolo vero come Gardini non avrebbe mai passato una notte in carcere».

Il suo giudizio sull’Avvocato Agnelli?

«L’Avvocato era molto diverso da come è stato raccontato. Era considerato un principe; in realtà aveva avuto una vita molto dura. Quasi non conobbe suo padre. Perse da giovane pure la madre, che adorava. Fece anche la dolce vita. Ma poi ebbe il coraggio di andare da Valletta, l’uomo che aveva reso grande la Fiat, a dirgli: ora tocca a me. Diceva che avrebbe fatto fallire l’edicola all’angolo di corso Marconi in due giorni, ma aveva una straordinaria visione, antevedeva i grandi fatti».

Valletta l’ha conosciuto?

«Sì. Mi aspettavo un carismatico, uno come Agostino Rocca. Valletta invece appariva un professorino piccolo e magro. In realtà era d’acciaio. ».

Fu Cuccia a mandarla in Fiat?

«Questa è un’altra cosa che si sente dire ed è totalmente falsa. Da tempo Agnelli mi chiedeva: “Perché non viene da noi?”. Io esitavo perché mi dicevano che la Fiat era una caserma, dove gli impiegati portavano le mezze maniche e le donne il grembiule nero, e in effetti era così. Agnelli chiese di me a Cuccia, e lui rispose: troppo tardi, Romiti è andato all’Alitalia. Arrivai poi a Torino nel 1972».

E cominciò a scontrarsi con Umberto Agnelli.

«All’inizio avevamo buoni rapporti. Ma lui aveva in azienda amici che se ne approfittavano. Io li misi fuori, e lui non me lo perdonò. Quando Suni Agnelli divenne ministro degli Esteri, ci vedemmo e mi chiese di fare pace con Umberto. Risposi che non potevo tenere in Fiat gente che lo tradiva. Suni non replicò».

Seguì lo scontro con Carlo De Benedetti.

«De Benedetti piaceva all’Avvocato, ma cominciò presto ad assumere atteggiamenti antipatici. Diceva in giro di essere il primo azionista individuale della Fiat: cosa vera, perché gli Agnelli erano tanti e lui era entrato vendendoci molto bene la sua azienda, la Gilardini. Quando poi disse che bisognava cacciare i dirigenti e lasciare a casa 50 mila persone, l’Avvocato rispose: “Mi spiace, non si può fare”. “Allora me ne vado”. “Va bene, se ne vada” fu la risposta».

Non crederà che De Benedetti pensasse davvero di scalare la Fiat?

«Carlo De Benedetti mi ha sempre detto di no. Certo non era facile. Non escludo però che ci pensasse».

Lei ha polemizzato anche con Marchionne.

«Marchionne è in gamba. Però ha avuto in mente fin dall’inizio di portare la Fiat in America. È stato molto abile a farlo. La sede potrà anche restare simbolicamente a Torino, gli stabilimenti italiani rimarranno, ma ormai la gestione della Fiat è americana».

La famiglia però c’è ancora.

«È vero, John Elkann poteva fare il rentier, invece si occupa dell’azienda. L’Avvocato ha ricreato con lui il rapporto che aveva con il nonno. Umberto puntava sul figlio Andrea, che porta il cognome Agnelli, ma l’Avvocato scelse John. Nell’accomandita in cui si decise di farlo entrare nel consiglio d’amministrazione, Umberto disse al fratello: “Sia chiaro che è una tua decisione”. Gabetti e io precisammo che eravamo d’accordo anche noi. Umberto ripeté: “No, è una decisione dell’Avvocato”».

Berlusconi l’ha delusa?

«Sì. Come imprenditore è stato bravissimo. Ma non doveva fare politica».

Non la fece anche per salvare le aziende?

«No, aveva il gusto per la politica, e per il potere. ».

Anche Monti l’ha delusa?

«Sì, e gliel’ho detto, quando ci siamo trovati a Ballarò: “Perché ti sei candidato?”. Mi ha risposto mostrando i politici presenti: “Perché altrimenti ti saresti ritrovato da solo con loro”».

Renzi come lo trova?

«Mi ha invitato a pranzo a Firenze, e io gli ho rimproverato di essere stato ad Arcore. Abbiamo bisogno di uno come lui, che piace alla gente. È intelligente, ma forse fin troppo ambizioso».

Chi le piace ora in politica?

«Ci sono diversi uomini di qualità. Uno è Enrico Letta. È molto educato e questo può far sembrare che non abbia caratteristiche da leader. Credo invece che dimostrerà di esserlo».

Squinzi è un leader?

«Squinzi è soprattutto un bravissimo industriale, con la moglie ha creato una straordinaria impresa mondiale».

Sarebbe stato meglio Bombassei?

«Bombassei doveva farsi avanti prima. Gliel’ho detto. Mi ha risposto che toccava a Montezemolo. Mah…».

Anche con Prodi lei è sempre stato critico. Pensare che vi diede l’Alfa Romeo.

«L’Alfa, che perdeva un sacco di soldi, ce la vendette Viezzoli di Finmeccanica, che peraltro era un dipendente di Prodi. Lui stava per venderla alla Ford, dopo che Ghidella e Tramontana, l’ad dell’Alfa, da tempo trattavano un’alleanza. Andai nell’ufficio di Prodi all’Iri e mi lamentai pesantemente. Non sapeva più dove girarsi».

E il Prodi politico?

«Ho qualche perplessità. L’euro si doveva fare, ma non così, senza un governo comune europeo. La sfida delle nuove generazioni è costruire gli Stati Uniti d’Europa».

Come vede il futuro dell’Italia?

«Con grandi potenzialità. A cominciare da Milano, che con la moda e il design può trainare la ripresa. La prima cosa da fare è dare lavoro ai cinquantenni che l’hanno perso e ai giovani che non l’hanno mai avuto. C’è un Paese da ricostruire, i fiumi esondano, le scuole cadono a pezzi: mettiamo i cassintegrati e i disoccupati al lavoro».

Quando toccò a lei, lasciare la gente a casa, come si sentiva?

«Ma noi avevamo un programma. La Fiat mandò via 25 mila persone, e negli anni successivi ne assunse 60 mila. Noi volevamo fare un’azienda più grande e più forte, non più piccola».

Lei però non ha avuto lo stesso successo come imprenditore. Rimpianti?

«Qualcuno sì. Il mio capolavoro è stata la marcia dei 40 mila. Allora non feci tanti ragionamenti: gettai il cuore oltre l’ostacolo. Un tempo negli affari contava più il cuore della mente, più l’istinto dei calcoli; ora non più. Il mio mondo era quello. Oggi è diverso».

Come vede il futuro del «Corriere»?

«Dovrebbe appartenere a una Fondazione».

La considera una situazione praticabile?

«Sì. Certo bisognerebbe esercitare una moral suasion sugli azionisti».