Derivati, stessa finanza nascondi-debito che ci ha fatto entrare nell’euro

di Redazione Blitz
Pubblicato il 27 Aprile 2015 - 14:26 OLTRE 6 MESI FA
Derivati, stessa finanza nascondi-debito che ci ha fatto entrare nell'euro

Derivati, stessa finanza nascondi-debito che ci ha fatto entrare nell’euro

ROMA – Derivati, stessa finanza nascondi-debito che ci ha fatto entrare nell’euro. La perdita potenziale derivante dalla sottoscrizione di contratti derivati da parte del Tesoro ammonta a 42 miliardi di euro, secondo l’ultima stima (dicembre 2014). L’inchiesta sulla Rai di Milena Gabanelli per Report cerca di metter ordine nella selva di conti e misteri connessi con questo tipo di operazioni che vanno avanti dagli anni ’90.

L’anno scorso sono stati pagati 3,4 miliardi, dal 201 1, la  spesa ha raggiunto i 12,9 miliardi con 17 banche internazionali e due gruppi italiani. Quale sia l’entità del rischio derivati e quale l’impatto sulla finanza pubblica li riassume Andrea Greco su Repubblica.

Più del tesoretto di Matteo Renzi. Più della minore spesa 2014 sul debito pubblico. Il tesoretto vero lo vanno incassando 19 banche d’affari controparti della Repubblica e degli enti locali sui derivati: 17 miliardi dal 2011, tra esborsi reali e aggravi del fabbisogno. Nel solo 2014 l’impatto negativo per il Paese è 5,46 miliardi, più dei 4,14 risparmiati per il minor costo del debito che quei contratti dovrebbero coprire da rischi su tassi e cambi, come sostiene il Tesoro.

L’Italia è la nazione europea che paga di più alto per i derivati: da sola supera il totale delle 19 dell’eurozona, fermo a 16 miliardi grazie agli incassi di Francia (+2,7 miliardi), Grecia (un miliardo), Belgio (un miliardo), Finlandia e Portogallo sulle scommesse finanziarie. Dietro l’Italia a pagare di più sono Olanda e Austria, ma con soli 2 miliardi a testa. (Andrea Greco, La Repubblica).

Parliamo di uno strumento che serve da copertura dei rischi della fluttuazione dei tassi d’interesse nel mercato dei titoli: ma il gioco valeva la candela, specie con i tassi al minimo? Si torna ad evocare, a proposito dello strumento derivati, un maquillage dei conti pubblici per consentire all’Italia (e alla Grecia) del debito monstre di entrare nella moneta unica. Un trucco contabile per rientrare negli stringenti parametri Ue, di fatto un incentivo contabile con cui Claudio Gatti, autore di un analogo dossier sul Sole 24 Ore sui derivati, giustifica il ricorso a questo complicato strumento finanziario utile sia al Tesoro (ma solo nel breve periodo, come si è visto) sia alle banche.

Comunque sia, in un discorso di copertura contro un evento ritenuto improbabile, la questione da valutare è quella del costo. Anche perché 42 miliardi non sono certamente pochi. Ma qui si inserisce un forte incentivo di natura contabile: fino all’ottobre scorso per i derivati le regole prevedevano che venissero portati a bilancio gli introiti – i cosiddetti upfront – ma non le passività o i mark-to-market acquisiti, che a bilancio sarebbero andati solo al momento dell’esborso.

Il Mef ce lo ha confermato: «Il bilancio è fatto per cassa, quindi non avrebbe alcun senso esporre il mark-to-market, cioè un esborso squisitamente teorico che non si verifica nell’anno di cui il bilancio offre un resoconto. Ovviamente vengono invece indicati nel bilancio i flussi finanziari effettivi generati dall’esercizio dei contratti nel corso dell’anno».
Anche i banchieri avevano il loro ritorno: perché a differenza di quello che fa lo Stato, le banche portano a bilancio i crediti acquisiti con il mark-to-market. Che poi influiscono sui bonus di fine anno. Insomma era una situazione che in inglese si definirebbe win-win, in cui entrambi avevano un ritorno – immediato per lo Stato, spalmato nel tempo per le controparti private. (Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore).