ROMA – In Italia il lavoro c’è, quello che manca sono i lavoratori. Non è vero, non si può generalizzare. Gli immigrati sono tutti occupati. No, non tutti lavorano. Questa la sintesi e la sostanza del botta e risposta tra i ministri Tremonti e Maroni. Il primo, impegnato a Washington dove ha partecipato ai lavori del Fondo Monetario Internazionale, sostiene che nel nostro paese il lavoro non manca, e l’occupazione degli immigrati ne è la dimostrazione, sono al contrario i giovani italiani che non vogliono fare determinati lavori e perciò rimangono disoccupati. Dal canto suo il ministro dell’Interno non la vede così, ci sono immigrati disoccupati e ragazzi italiani che accettano e scelgono anche lavori umili. Come spesso accade hanno torto e ragione entrambi.
Certo che non si può generalizzare come sostiene Maroni, certo che ci sono immigrati che non trovano lavoro e certo che ci sono ragazzi italiani che accettano di fare il muratore o la donna della pulizie. Ma è altrettanto vero che molti lavori, molte professioni sono snobbate o scartate a priori dalla maggioranza degli italiani. Lo dicono i numeri e i fatti. C’è però dell’altro, un problema a monte. L’occupazione e la disoccupazione di italiani ed immigrati sono il risultato della somma di più fattori. Un sistema d’istruzione concepito male e malissimo collegato col mondo del lavoro e la flessibilità che si è tradotta in precariato. I numeri parlano chiaro: gli italiani non vogliono fare i lavori più umili e faticosi. Le piccole e medie aziende cercano e offrono contratti a tempo indeterminato per parrucchieri, gelatai, falegnami, pasticcieri. I lavori che richiedono meno qualificazione vengono presi dagli immigrati e gli altri, nella maggior parte dei casi, rimangono senza candidati. Non ci sono sarti, panettieri e muratori, non ci sono meccanici, imbianchini e installatori. Ha ragione Tremonti. Sì, ma anche Maroni. Gli italiani non sono “bamboccioni”, o almeno non ci nascono. Come dice in un’intervista a Repubblica il sociologo fondatore del Censis Giuseppe De Rita, gli italiani diventano bamboccioni, obbligati da un mercato del lavoro che con la flessibilità/precariato rende impensabile per i giovani lasciare la casa materna, il loro incerto e basso reddito non gliene offre la possibilità, e castrati da una formazione che li porta a 25/30 anni con tanti bei titoli di studio che poco o nulla hanno a che spartire con il lavoro vero.
Secondo De Rita in Italia si studia troppo e male. Si studiano cose che non servono realmente, troppo generiche, e contemporaneamente negli anni sono stati declassati e squalificati gli istituti tecnici che erano un ponte reale col mondo del lavoro. Il risultato è che oggi l’Italia è piena di diplomati e laureati che lavorano nei call center o, nella migliore della ipotesi, come precari, e che gli istituti tecnici sono rimasti così indietro che non sono più in grado di fornire una preparazione adeguata. La soluzione sarebbe per il fondatore del Censis tornare a imparare i mestieri. Oggi esistono gli stage, ma sono generalmente delle forme di sfruttamento gratuito del lavoro più che delle vere occasioni per imparare una professione. La scuola deve tornare ad insegnare a fare, e deve essere un’entità comunicante col mondo del lavoro, non un luogo totalmente avulso da qualsivoglia collegamento con il mondo reale. Maroni ha ragione quando afferma che non tutti gli immigrati lavorano e che anche i giovani italiani fanno lavori umili. Ma si dimentica di dire che sono pochi e che non esistono scuole che formino artigiani, ad esempio. Tremonti ha ragione quando dice che il lavoro in Italia c’è, ma dimentica di dire, o omette di dire, che per la moltitudine dei precari non esiste protezione sociale, non esistono ammortizzatori sociali. Hanno ragione e torto e, forse, nella loro veste di ministri, oltre a commentare, potrebbero anche far qualcosa.
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