Iva, il forfettone non c’è più: stangata per cinquecentomila

di Riccardo Galli
Pubblicato il 8 Luglio 2011 - 14:47 OLTRE 6 MESI FA

MILANO – C’era una volta il “forfettone” che rendeva relativamente dolce la vita delle partite Iva a basso reddito. C’era e non c’è più, cancellato dal decreto Tremonti. Una mazzata in termini di tasse in più da pagare per circa mezzo milioni di titolari di partita Iva che si aggira tra il 6 e il 9 per cento. Non una sciocchezza.

Secondo la normativa fiscale vigente fino a ieri partite Iva e lavoratori autonomi che a fine anno incassavano meno di 30 mila euro potevano utilizzare il regime minimo fiscale, ovvero una tassazione forfettaria del 20%. Una sorta di cedolare secca che comprendeva tutto: dall’Irpef ai tributi locali e rendeva superflua l’adesione agli studi di settore ed eliminava anche Iva e Irap. Un regime fiscale agevolato in termini di costi e semplificazione. Con il decreto Tremonti il forfettone saluta tutti, anzi quasi tutti. Non è infatti propriamente cancellato, ma sostanzialmente modificato: si pagherà ancor meno, solo il 5%, ma potranno aderirvi solo coloro i quali hanno iniziato l’attività negli ultimi cinque anni o vorranno iniziarla adesso. In un primo tempo era stato previsto anche un limite anagrafico, 35 anni, che è stato eliminato nella stesura finale. In questo modo, secondo i calcoli che hanno fatto in queste ore gli artigiani di Rete Imprese Italia e le associazioni delle partite Iva (come Acta), ad avvantaggiarsene sarebbero tutt’al più 50 mila soggetti a fronte di circa 500 mila persone che perderebbe il beneficio. Secondo i primi calcoli, sempre di Acta, l’associazione del terziario avanzato, per le partite Iva che guadagnano tra i 20 e i 30 mila euro si può parlare di una percentuale tra il 6 e il 9 in più di prelievo visto che continueranno a non pagare l’Irap ma saranno soggetti alle addizionali Irpef locali, agli studi di settore e dovranno comunque far pagare l’Iva ai clienti.

Certo, il regime fiscale del forfettone qualche difetto lo aveva, potevano usufruirne ad esempio anche i doppiolavoristi che magari avevano un primo lavoro dipendente, ma la sua abolizione sic et simpliciter complica la vita a quei lavoratori autonomi già in difficoltà per i colpi della grande crisi e che si ritroveranno a pagare più tasse e una complicazione burocratica in più, al posto della tanto sventolata semplificazione e delle promessa riforma fiscale. Bene metterci mano e modificarlo dunque, ma questo è un restyling troppo brutale.

Ma ai titolari di partita Iva poteva andare ancor peggio. Il rischio che i contributi previdenziali obbligatori da versare alla gestione separata dell’Inps passassero in una notte dal 26% al 33% ha fatto tremare consulenti e altri professionisti. La norma è stata presa in seria considerazione dalle strutture ministeriali incaricate di preparare “i tagli” ma poi è stata derubricata. La paura però che l’aumento sia solo rinviato però rimane. Un altro capitolo del decreto investe infine le partite Iva e i loro titolari. L’esecutivo ha infatti deciso, e sembra sensato, di procedere alla cancellazione di quelle partite Iva inattive da tre anni che, secondo i dati dell’Agenzia delle Entrate, dovrebbero essere all’incirca 2 milioni. Mossa che punta a stanare una fetta ulteriore di evasione, è verosimile infatti che molte partite Iva in sonno in realtà vengano usate come «cestini» per dirottare fatture oppure corrispondano a imprese che hanno chiuso l’attività ma avendo in pancia un immobile non vogliono pagare le tasse dovute alla sua rivalutazione.