Pensioni: i pilastri che non reggono

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 7 Giugno 2011 - 15:53 OLTRE 6 MESI FA

inpsIl sistema previdenziale italiano è come un tavolo triangolare a tre zampe. Con una peculiarità: è capace, non chiedetemi in base a quale strana legge fisica, a reggersi bene in piedi anche su due sole di esse. Però ha un grosso problema: oggi come oggi due gambe su tre sono molto corte e non esiste possibilità alcuna che il tavolo raggiunga un soddisfacente equilibrio basandosi solo su quella di lunghezza normale. Fuor di metafora, il sistema pensionistico, così come è stato ricostruito nell’ultimo quindicennio dalle varie riforme succedutesi, doveva basarsi su tre “pilastri” ma solo uno svolge pienamente il suo ruolo. Esaminiamoli partitamente e vediamo le conseguenze negative della situazione accennata.

Primo pilastro. Entro pochissimo tempo si esauriranno le coorti di quanti ancora beneficiano del vecchio sistema di calcolo “retributivo”, nel quale cioè le pensioni sono commisurate alle retribuzioni medie degli ultimi anni di lavoro. Fra breve, poi, cominceranno a ritirarsi, magari sospinti da qualche prepensionamento, quelli che si trovano in una condizione intermedia (contributivo pro rata): il loro assegno previdenziale viene calcolato su base retributiva per una parte della loro carriera lavorativa e per un’altra parte in base ai contributi versati. Infine, fra 15-20 anni cominceranno a entrare nelle file delle pantere grigie in quiescenza coloro che hanno cominciato a lavorare dopo l’introduzione della legge Dini del 1995. E se qualcosa non cambierà saranno guai.

Con il contributivo i lavoratori che non fanno “carriera”, e quindi hanno retribuzioni basse ma molto stabili nel tempo, riceveranno pensioni che bene o male rispecchiano l’encefalogramma piatto delle loro buste paga. Quelli invece che nel corso della loro vita lavorativa conseguiranno sostanziosi aumenti, si ritroveranno con un “tasso di sostituzione” (rapporto tra indennità di quiescenza e ultima retribuzione) molto basso. Sempre la riforma Dini ha introdotto un’altra novità rilevante: si è stabilito che nel calcolo della pensione incida in qualche misura anche l’andamento del Pil negli anni di lavoro, un andamento che nell’ultimo periodo è stato inferiore a quello che veniva ipotizzato negli anni ’90. Di nuovo la crisi, ma ancor più i mutamenti strutturali intervenuti nel mercato del lavoro, con l’esplosione dei contratti a tempo determinato e dei lavori a tempo parziale, hanno comportato un forte incremento della carriere lavorative contrassegnate da bassi salari e soprattutto da mesi o anni di interruzione dei rapporti di lavoro. Col sistema contributivo ciò inciderà pesantemente quando gli attuali giovani precari andranno a farsi fare i conti per la pensione, anche se l’età di uscita dal lavoro verrà fortemente posticipata. Una soluzione, quest’ultima, che nel nuovo regime dovrebbe rappresentare un’opzione del tutto libera (meno contribuisci, meno prendi) mentre invece i più recenti interventi, sia del governo Prodi che del ministro berlusconiano Maurizio Sacconi, hanno messo a punto un meccanismo di variazione automatica dell’età di quiescenza basato sul mutamento delle “speranze di vita”. Negli ultimi decenni la vita media si è molto allungata (e questa, oltre che una buona notizia, è la causa fondamentale della crisi dei sistemi previdenziali). Non è dato sapere se il trend proseguirà nel futuro, anche se molti esperti lo ritengono probabile. Se queste previsioni si realizzeranno, i giovani trentenni d’oggi lasceranno il lavoro (chi l’avrà nel frattempo trovato) intorno ai 70 anni.