Tagli. Far saltare il Ponte di Messina costa 800 milioni di penale

di Warsamé Dini Casali
Pubblicato il 5 Ottobre 2011 - 13:04 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Tagli, sempre tagli, fortissimamente tagli: ma a furia di sforbiciare indiscriminatamente succede che, per esempio, far saltare il Ponte di Messina, nel senso di interromperne il finanziamento, ci può costare tra i 500 e gli 800 milioni di penale. Perché per la faraonica impresa è già stato approvato il finanziamento di 1 miliardo e 300 milioni di euro, con l’aggiunta dell’aumento di 300 milioni del capitale della società Stretto di Messina. Se la Grande Opera venisse cancellata la penale prevista potrebbe valere da un minimo di 160 milioni a un massimo di 400. Cui andrebbero sommati i costi finora sostenuti dalla Stretto di Messina spa, circa 270 milioni. Senza contare, ci ricorda Sergio Rizzo sul Corriere della Sera “le spese per la liquidazione, i contenziosi eventuali, gli indennizzi ai consulenti, le cause di lavoro…” Una cifra astronomica, che appunto può arrivare a 800 milioni, senza che nemmeno l’ombra dell’ambiziosa infrastruttura veda la luce.

Ma non finisce qui. Di cantieri potenzialmente abortiti pullula la penisola: 593 milioni già assegnati per l’edilizia scolastica, 168 alla ricostruzione dell’Abruzzo, l’alta velocità tra Milano e Genova, tra Treviglio e Brescia, il nuovo collegamento stradale in Salento. E poi la manutenzione Anas, 570 milioni, i sempre annunciati interventi di riduzione del rischio idrogeologico, 900 milioni, il piano per le piccole e medie opere al Sud, 413 milioni.

La questione divide la maggioranza di Governo, stretta dalla doppia necessità di rispettare le ingiunzioni del’Europa a ridurre la spesa pubblica e allo stesso tempo rilanciare lo sviluppo per ricominciare a crescere. Un dilemma al momento irrisolvibile per Berlusconi, che vede nell’elaborazione rapida e convincente del decreto sviluppo l’ultima ciambella di salvataggio per le sorti del suo governo. Ancora una volta Tremonti fa da contraltare polemico: d’altra parte, sul decreto che autorizza i tagli delle infrastrutture c’è la firma del Presidente del Consiglio. che però non può trascurare le ripetute rimostranze dei suoi ministri: ben vengano normative e soluzioni che sveltiscono le procedure per gli investimenti, ma “senza la ciccia non si va lontano…”.  E la ciccia è rappresentata dai 4,5 miliardi tagliati ai ministeri e alla stessa Presidenza del Consiglio.

Si lamentano in particolare i ministri Matteoli e Romani, titolari rispettivamente dei dicasteri delle Attività Produttive e delle Infrastrutture. Sono stati loro a mettere in guardia Berlusconi: con la scarsità di fondi a disposizione le opere pubbliche annunciate, promesse, a volte già perfino iniziate,  “non potranno né essere messe in cantiere né proseguite”, con il rischio addirittura di dover “pagare penali pesanti per il mancato rispetto dei contratti”.  Il retroscena riferito da Paola Di Caro sempre sul Corriere della Sera, fornisce dunque un quadro drammatico per l’azione di un esecutivo frustrato e disilluso. Berlusconi vuole riprendersi la scena, sa che il giudice inappellabile del suo futuro da premier, non è a Napoli o a Milano, ma in tutte quelle realtà territoriali che vedranno sfumare le opportunità di crescita. “Perché se non diamo risposte su questo terreno, a Palazzo Chigi che ci restiamo a fare?”, ragiona Berlusconi, rigirandosi nervosamente tra le mani un decreto sviluppo che senza soldi vale al massimo un biglietto di sola andata per Antigua.