Il ministro Riccardi: “Vietiamo gli spot sul gioco”. L'”anatema” Cei

di Warsamè Dini Casali
Pubblicato il 1 Marzo 2012 - 10:49 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Undicesimo comandamento: non giocare. Iniziata come battaglia per prevenire le ludopatie, la sferza dei vescovi si abbatte sulla pubblicità dei giochi: il ministro Riccardi (ministro gradito alla Cei e fondatore della Comunità di Sant’Egidio) proporrà che vengano vietati gli spot in tv che incentivano al gioco. Sono troppi, il gioco manda in rovina le persone e la cerchia dei familiari, come il fumo crea dipendenza, come per il fumo ne va vietata la pubblicità. L’accanimento autodistruttivo su video-poker, slot machine, scommesse, e tutta l’ampia offerta di giochi in Italia deve essere contrastato: se non lo si può fermare che almeno venga nascosto.

Riccardi, in qualità di ministro della Cooperazione e dell’Integrazione, è titolare della delega in materia di dipendenze. E’ noto il suo pensiero: ” Il fenomeno del gioco d’azzardo sta assumendo in alcuni casi i contorni di una vera e propria dipendenza psicologica. Ho chiesto ai miei uffici di studiare il problema, piuttosto complesso, e l’obiettivo è di arrivare al divieto di pubblicità, come nel caso delle sigarette o a una ferrea regolamentazione degli spot”. Dal Consiglio dei ministri, dove siede, è in grado di recepire le indicazioni della Conferenza episcopale che sul tema è intervenuta a più riprese.

L’ultima reprimenda è di pochi giorni fa. Il cardinal Bagnasco ha voluto unirsi all’associazione Libera di don Ciotti che denuncia l’ambiguità e i falsi obiettivi della campagna dei Monopoli di Stato per sensibilizzare i giovani sul corretto modo di giocare. Il riferimento più forte è il paragone con le multinazionali del tabacco che fino agli anni ’60 erano loro stesse a fornire studi e statistiche sui danni delle sigarette negando fino all’ultimo la correlazione con i tumori, paragone fatto dalla Consulta Anti-usura che il cardinale ha avallato in maniera totale. “La menzogna va sempre dichiarata tale” ha affermato, invitando tutti, governo in primis a tenere vivo il dibattito. Poi l’affondo sulla pubblicità:  “La falsità sistematica di certa pubblicità è delittuosa. Uccide il modo corretto di pensare e agire e per questo è un attentato alla società”.

Ma basta la linea dura per contenere i danni della ludopatia? Il paragone con il tabagismo non può fermarsi unicamente al suo lato maledetto. Il gioco concorre in misura notevolissima a rimpinguare le casse dello stato. Ne è stato esteso il campo delle attività non solo perché è molto remunerativo, ma perché solo in questo modo è possibile contrastare il mercato ricchissimo del gioco illegale, settore monopolizzato dalle cosche mafiose. Senza contare il grande recupero in termini di evasione fiscale. Da almeno un decennio la vendita di sigarette non è minacciata dal mercato parallelo e illegale: lo spot del gioco legale, per quanto eticamente discutibile, sottrae più giocatori dalle grinfie dei biscazzieri clandestini.

Stato biscazziere? La scommessa (calcolata, ma nessuno ha la sfera di cristallo)  è che un approccio anti-proibizionista è più razionale, più efficace, più utile dell’anatema, del divieto, della censura. E’ ovviamente discutibile, ma se in Italia si gioca più che nel resto d’Europa è difficile pensare che sia solo  a causa di uno o mille spot. E poi, a proposito di attentati alla società: 100mila addetti (oltre 20.000 operatori direttamente impiegati nel settore e più di 80.000 all’interno dei punti vendita) meritano la patente di attentatori?

E a proposito di numeri. “Il settore dei giochi in Italia ha visto una progressiva crescita raggiungendo nel 2011 una raccolta stimata di 76,6 miliardi, di cui oltre 58,9 sono tornati ai giocatori sotto forma di vincite: la spesa netta del pubblico è quindi stata pari a circa 17,7 miliardi.  Nello stesso anno le aziende del settore hanno registrato complessivamente ricavi lordi pari a circa il 10,9% della raccolta totale. Questa quota è a sua volta così ripartita: il 7,8% viene destinato alla remunerazione della rete (agenzie, ricevitorie, gestori slot, etc.) e il restante 3,1% alle società concessionarie. Si tratta di un settore fortemente impegnato in investimenti per lo sviluppo: circa il 50% del fatturato è destinato all’acquisto di servizi e oltre 800 milioni rappresentano i costi del personale”. Cifre e asserzioni provengono dai Monopoli di Stato, un’agenzia pubblica, non da un bookmaker assoldato da qualche clan.

Quelli, i clan, realizzano 2 miliardi di euro l’anno ed evadono totalmente le imposte sui profitti realizzati nel nostro Paese. Senza bisogno di alcuno spot.