Spread a 200, a chi il merito? Non Letta, Monti, Draghi, è il mercato bellezza..

di Warsamé Dini Casali
Pubblicato il 8 Gennaio 2014 - 05:00 OLTRE 6 MESI FA
Spread a 200, a chi il merito? Non Letta, Monti, Draghi, è il mercato bellezza..

Spread a 200, a chi il merito? Non Letta, Monti, Draghi, è il mercato bellezza..

ROMA – Spread a 200, a chi il merito? Non Letta, Monti o Draghi, è il mercato bellezza… Quando dal 2011 un indicatore economico sui rendimenti dei titoli di Stato sconosciuto ai più, detto spread, cominciò a crescere fino ai livelli di un potenziale default e di insostenibilità del debito assunto, sin dal principio, la ricerca di un colpevole, dell’untore di questa strana malattia, si indirizzò verso un’entità astratta e impalpabile chiamata mercato. O i mercati, se possibile ancora più inquietanti.

Oggi che lo spread è tornato a livelli umani, cioè a una distanza di 200 punti tra i rendimenti del Btp decennale e l’omologo bund tedesco (che faceva e continua a fare da pietra di paragone) si discute con foga di chi sia il merito, ogni parte in causa difendendo chi il suo operato, chi il suo buon nome, chi una scelta di campo. In ogni caso, non risulta tra i vincitori quello più ovvio, il mercato, prima vituperato e maledetto sebbene invisibile e sfuggente.

E’ anche l’opinione di Osvaldo De Paolini che sul Messaggero (“Ma più che la stabilità ha potuto il mercato”) ha provato a circoscrivere il raggio d’azione delle pretese della politica nell’attribuirsi meriti che non gli competono. In sintesi, il presidente del Consiglio Enrico Letta rivendica il suo di merito. L’ex premier Mario Monti diede addirittura dello “stolto” a chi si sorprendeva della recessione conseguente alle sue manovre, oggi arriva a rivendicare il ruolo di ammazza spread fino fino a scomputare, dal picco del  9 novembre 2011 (spread a 574), 302 punti suoi e 72 del successore, un esercizio più da ragioniere che da statista.

Matteo Renzi abbassa la cresta di Letta preferendogli come salvatore della Patria Mario Draghi. Da Forza Italia  esigono il riconoscimento postumo che Berlusconi non c’entrava nulla allora con lo spread, semmai fu un complotto tedesco, e altro che Monti e Letta, disastrosi, solo Draghi può vantare qualche merito con quel “what ever it takes” per salvare l’euro a furia di prestiti Bce a tassi minimi.

Di striscio, anche Renato Brunetta, che deplora l’azione dei due ultimi governi e non riconosce loro alcun merito, nel suo ormai quotidiano bollettino mattinale, affaccia una delle ragioni meno discutibili e più ovvie: sono cresciuti i rendimenti del bund tedesco (contestualmente alla diminuzione di quelli dei titoli italiani) accorciando la distanza con quelli italiani. Proprio da qui, De Paolini comincia il ragionamento per cui non è stata la stabilità italiana a invertire la corsa dello spread (come sostiene Brunetta) ma il mercato. Senza disconoscere, però, le responsabilità politiche di Berlusconi presidente del Consiglio quando lo spread schizzava in alto, come invece non riconosce Brunetta.

Due i fattori diciamo così, mercatisti, secondo De Paolini per la discesa in Italia dello spread. Primo, “il cambio di segno delle attese future sui tassi d’interesse dei paesi forti” dopo le grandiose immissioni di liquidità delle banche centrali con la conseguenza che gli investitori si sono rivolti ai paesi meno forti come l’Italia in grado di garantire rendimenti più alti. Secondo, effetto del primo, è che i rendimenti dei titoli di paesi forti come la Germania sono aumentati, e quelli di paesi meno forti come l’Italia sono diminuiti.

Il problema, perché i problemi non finiscono con lo spread, è che come all’inizio della crisi per le ragioni contrarie, lo stesso spread non sembra corrispondere ai fondamentali economici. Che restano pessimi. E che non devono indurre a false aspettative, dato per scontato che la stabilità politica, dal punto di vista dei mercati e dunque delle scommesse sul sistema paese, ha la sua importanza.

È ovvio che uno spread più basso sia un bene per l’Italia: 100 punti in meno stabilizzati per un anno, rispetto ai circa 400 miliardi di emissioni lorde a carico del Tesoro e considerata la vita media dei titoli in essere, comportano nel triennio successivo un risparmio di circa 15-18 miliardi di minori oneri. Ma bisogna stare attenti a non forzare queste cifre. Letta ha per esempio parlato di 5 miliardi risparmiati nel 2013, ma se soppesiamo i numeri ufficiali forniti dal ministero dell’Economia il risparmio si riduce in realtà a meno di 3 miliardi. Il che significa che prima di esultare o promettere risorse da spendere, è indispensabile fare bene i conti: in questo campo, le delusioni rischiano di produrre danni gravi. (Osvaldo de Paolini, Il Messaggero)