Staffetta generazionale. Alesina critica Giovannini: senza virtù. Propaganda?

Pubblicato il 22 Maggio 2013 - 12:55 OLTRE 6 MESI FA

Enrico Giovannini

ROMA – Alberto Alesina prende una posizione critica sulla idea di Enrico Giovannini, ministro del Lavoro di una staffetta generazionle che favorisca l’uscita dal lavoro dei “vecchi” perché lascino il loro posto ai giovani.

 

Alberto Alesina è un economista, che al passivo della sua attività deve registrare il sostegno alla “austerità espansiva”, ancora di recente ricordato e criticato dal premio Nobel Paul Krugman.

Enrico Giovannini è uno statistico e non si capisce cosa c’entri col il ministero del lavoro se lo si considera un tecnico, e anche se lo si considera un politico, che non è, se non nel senso di avere saputo usare molto bene in chiave politica le statistiche prodotte dallo Istituto Istat di cui è stato presidente per 4 anni.

Forse anche per questo l’idea lanciata da Enrico Giovannini appare più una boutade per avere titoli sui giornali e alimentare speranze che non una proposta portatrice di crescita.

Alberto Alesina, in un editoriale sul Corriere della Sera intitolato “Una staffetta senza virtù”, non fa giri di parole:

“Credo che gli italiani siano un po’ confusi”

dopo Elsa Fornero che voleva mandare tutti in pensione dopo i 67 anni, il suo successore vorrebbe abbassare l’età a 62 a condizioni che hanno molto il sapore di stato corporativo.

Viene da osservare che la cosa in sé non scandalizza, perché la continuità culturale tra Italia fascista e repubblicana è molto più forte di quanto, per ragioni di propaganda, sia mai stato lecito ammettere. Scandalizza perché lo stato corporativo di mussoliniana memoria è una delle cose più antistoriche e retrò che siano mai state concepite.

Alberto Alesina nota:

“In un Paese che cresce, i posti di lavoro non sono fissi ma aumentano, quindi ci sarebbe posto per tutti, giovani e anziani. In un Paese come il nostro, poi, nel quale la vita media si sta allungando, sarebbe assolutamente necessario che gli anziani lavorassero più a lungo, altrimenti il carico fiscale per chi ha un impiego si alza molto proprio per sostenere chi un lavoro non ce l’ha più.

Se il Paese non cresce o non crea posti di lavoro

“i giovani troveranno ancora meno occupazione. Per di più, alte tasse e rigidità contrattuali all’ingresso sul mercato del lavoro scoraggiano assunzioni da parte delle imprese. Il carico fiscale inoltre riduce la crescita creando un circolo vizioso: sempre meno lavoro e sempre più persone che non essendo impiegate necessitano del sostegno di chi invece un’occupazione ce l’ha.

“Il mancato sviluppo fa sì che le ore lavorate non aumentino, restino fisse. Redistribuirle fra giovani e anziani, come prevederebbe la «staffetta generazionale», non aiuta certo nell’aumentare il reddito degli italiani. Semplicemente lo redistribuisce tra padri e madri, figli e figlie. Posto poi che la «staffetta» funzioni, la disoccupazione giovanile si ridurrebbe sì, ma in modo fittizio: non creando più lavoro quanto redistribuendo quello già esistente tra una generazione e l’altra. Una stessa torta, il Prodotto interno lordo, diviso in parti diverse senza però che questo dia alcun contributo alla crescita”.

Un merito alla proposta di Giovannini Alesina lo riconosce, di potere produrre “qualche effetto indiretto”.

1. più a lungo un giovane rimane escluso dalla forza lavoro meno diventa «impiegabile» dalle imprese e quindi scoraggiato. La «staffetta» potrebbe per questo aiutare a ridurre il tempo di attesa per l’impiego.

2. si potrebbe rendere figli e figlie meno legati al reddito di padri, madri e alla famiglia, quindi più mobili, facilitando il loro inserimento nel mondo del lavoro anche quando questo richiede un cambio di città o luogo di vita.

Però, se vogliamo essere onesti con noi stessi,

“la staffetta in sé e per sé non aiuterà la crescita. Anzi, sembra quasi un triste riconoscimento che l’unico modo per impiegare i giovani è chiedere ai genitori di scansarsi dal loro lavoro, cosa che suona come un’ammissione di incapacità a far crescere le ore di lavoro totali”.

E quindi è

“una misura un po’ disperata per cercare di aiutare una generazione in grave difficoltà in un modo che però non aiuta ad attaccare alla radice i problemi di un Paese fermo da due decenni”.