Unicredit, Intesa…Capitali in fuga, troppo piccole per crescere

Pubblicato il 13 Settembre 2011 - 10:03 OLTRE 6 MESI FA

MILANO – Lo spettro che aleggia è sempre lo stesso, da almeno tre anni: da quel crack improvviso di Lehaman Brothers che se non altro ha insegnato come sia praticamente impossibile percepire segnali premonitori. O quando ci sono valutarne la giusta portata. Il crollo delle banche, oggi quelle francesi, viene a più riprese non considerato evento possibile. Tutti gli indicatori, solidità patrimoniale, attivi sul rischio, informative trasparenti, ripetuti stress test, escludono smottamenti. Ma allora perché i mercati non ci credono? Sono settimane che gli istituti bancari preferiscono mettere i propri soldi nella Bce, a tassi irrisori, piuttosto che prestarli al resto del sistema a tassi più convenienti.

L’epoca Lehman è stata contrassegnata da un eccesso di indebitamento rispetto al capitale posseduto come leva privilegiata per operare sui mercati. Ci si indebitava cioè fino al collo per aumentare le proprie quotazioni, favorendo però quelle colossali bolle finanziarie che sappiamo. Oggi, al contrario, la difficoltà ad ottenere credito e la minore propensione – meglio dire una vera e propria allergia – al rischio, costringe gli investitori ad “alleggerirsi”, ovvero a vendere beni detenuti, come le azioni, facendo scendere le quotazioni.

Il problema italiano, al di là delle congiunture legate ai titoli spazzatura di Atene che intossicano soprattutto banche francesi e tedesche (un terzo del totale è nella loro pancia), è legato a capitalizzazioni davvero insufficienti. Il Banco Popolare, che lunedì ha perso il 3% vale 1,7 miliardi di euro: solo a gennaio aveva affrontato un aumento di capitale da 2 miliardi. Banca Mps capitalizza 3,9 miliardi di euro, nemmeno il doppio dell’aumento di capitale del da oltre 2 miliardi concluso a luglio. Intesa vale 13,4 miliardi pur avendo incassato in primavera 5 miliardi dai soci. Unicredit non ha lanciato operazioni sul capitale nel 2011, ma le voci insistenti dell’imminenza di un aumento di capitale le stanno procurando uno scivolone appresso all’altro. Siamo agli antipodi del famigerato concetto “too big to fail” (troppo grandi per fallire)?

Da inizio anno l’indice Ftse Mib di Piazza Affari ha accusato una perdita secca del 33,2%. La peggiore performance dei mercati europei. Le banche italiane non riescono a drenare capitale dal mercato, con grave danno per la redditività. Sono troppo piccole, non hanno affrontato le indifferibili riforme strutturali per contenere costi e inefficienze. Hanno perso un po’ meno nei primi sei mesi dell’anno ma l’outlook, le aspettative, è negativo a fronte di una situazione borsistica in cui la volatilità è diventata la norma.

La decisione di Moody’s di mettere sotto osservazione i rating di 13 banche italiane a giugno aveva seguito di una settimana la comunicazione di porre il rating dell’Italia Aa2 sotto esame in vista di una possibile riduzione del giudizio. Nella lista degli osservati speciali di Moody’s comparivano: Intesa Sanpaolo, Banca Imi, Banca Cr Firenze, Banca Mps, Banco Popolare, Bnl, Cariparma, Banca Popolare Friuladria, Carige, Banca Sella, Cassa di Risparmio di Bolzano-Sudtirol, Cassa di Risparmio di Cesena, Banca Padovana Credito Cooperativo, Cassa Centrale Banca, Cassa Centrale Raiffeisen e Istituto Servizi Mercato Agroalimentare.