Scrive Mastrobuoni: “Il disegno di Valletta, definito da lui stesso di “socialcapitalismo”, era quello di allettare le mestranze e convincerle a deporre le armi anche attraverso logiche premiali. Istituì un “premio di fedeltà” per gli ultrasessantacinquenni con 35 anni di lavoro alle spalle, costruì case di riposo, moltiplicò gli asili nido, «le provvidenze erano parecchie, c’era anche il gruppo sportivo, addirittura la Befana dei dipendenti». Valletta rafforzò l’aspetto “welfaristico” dell’impresa. Il risultato fu anche che «tante cose cementarono il senso dell’appartenenza all’azienda degli operai, ed erano anche una grande pubblicità per l’azienda»
Oggi «Marchionne promette solo che, se i lavoratori saranno buoni, riceveranno aumenti in busta paga. Riconosciuti, oltretutto, attraverso sgravi fiscali sugli straordinari. Insomma, è la fiscalità generale che sta pagando i sacrifici chiesti dall’amministratore delegato». L’aziendalismo di Marchionne «è solo quello di lacrime sangue, invece».
Accornero appiattisce un po’ la prospettiva, glissando sul fatto che tra Valletta e Marchionne c’è stata una mezza rivoluzione che ha avuto dal Pci, il partito di Accornero, molto propellente, c’è stato il terrorismo che hanno sfiancato l’azienda e hanno contribuito, insieme con l’effetto serra del monopolio sull’Italia, a farle perdere capacità competitiva proprio nel momento in cui il mercato si apriva alla concorrenza europea (e per fortuna loro un mai abbastanza commemorato e quasi del tutto dimenticato dirigente dell’era Valletta ottenne il blocco delle importazioni giapponesi che in larga misura si può dire abbia salvato la Fiat).
I tagli al welfare aziendale sono figli non della crudeltà di Marchionne ma del realismo di Vittorio Ghidella e di Cesare Romiti, di fronte a una verticale crisi di vendite della Fiat negli anni ’70.