Ebola, la mappa del contagio. E in Italia ci si difende così

di Redazione Blitz
Pubblicato il 9 Ottobre 2014 - 09:28 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Emergenza rossa in Ghana, Sierra Leone e Guinea per il contagio da virus Ebola. Arancio in Congo e Nigeria. Il rischio di contagio, rappresentato da diverse sfumature tra l’arancio e il verde, scende in Spagna, Arabia Saudita e Stati Uniti, ma rimane. Questa è la mappa redatta per la Stampa da Francesco Zaffarano sul rischio di contagio dal pericoloso virus che spaventa i paesi di tutto il mondo e che, sebbene ancora pari a zero in Italia, desta preoccupazione.

Ma come reagirebbe la sanità italiana all’eventualità di un paziente “zero”? Lo spiega Paolo Russo su La Stampa dopo la simulazione effettuata dallo Spallanzani di Roma e coordinata dall’ospedale Sacco di Milano:

“Ci dirigiamo verso l’accettazione. Fossimo arrivati dall’Africa occidentale in condizioni gravi ci avrebbe portati qui un’ambulanza di bio-contenimento. Intubati su una barella avvolta da un telo di plastica con «braccia» guantate, che consentono di maneggiare il contagiato senza alcuna possibilità di contatto.

Ma il paziente 0 accusa solo una febbre insistente e citofona all’accettazione. Non ci aprono ma un infermiere inizia a rivolgerci delle domande. Da dove veniamo, se abbiamo avuto contati diretti con persone con virus conclamato, quali sintomi accusiamo. Dalle risposte capiscono che il rischio c’è. Ci invitano a citofonare a una seconda porta. Aprono, nessun paziente in sala d’attesa perché qui l’isolamento è totale”.

Poi il paziente viene accolto in una stanza, con un lettino e un tavolo a due metri di sicurezza, dove medico e infermiere indossano guanti e mascherina:

“Iniziano nuove domande. Prima tra tutte se dall’ultimo contatto con una persona infetta sono passati più di 21 giorni. Perché quello è il periodo di incubazione del virus, che prima non si può rilevare, non dai sintomi e, fortunatamente, non si trasmette. Parte il prelievo del sangue per i test su Ebola e malaria”.

Per i risultati delle analisi del sangue ci vogliono 6 ore. Il medico, a debita distanza, invita il paziente a seguirlo in un percorso blindato e isolato fino all’arrivo nella stanza pressurizzata dell’isolamento:

“Arriviamo in una stanza disadorna e pressurizzata per evitare fuoriuscita di aria. La numero 13, alla faccia della scaramanzia. Ce ne sono altre due in un’ala dell’ospedale per il resto deserta. Un letto, un piccolo armadio, un tavolino, un bagno. «Poche cose per rendere meno complessa la sterilizzazione dopo il nostro passaggio»”.

Poi arrivano i risultati e se il test è positivo all’Ebola inizia la fase 2:

“Tuta integrale bianca, che lascia visibile solo una piccola parte del viso, coperta comunque da mascherina e occhiali protettivi. Alle mani gli immancabili guanti. Fossimo stati in condizioni più gravi saremmo finiti in una delle stanze super-isolate della terapia intensiva, dove i sanitari, così incappucciati, prima di uscire da una porta del bagno in tuta si fanno la doccia a base di ipoclorito di sodio. Varechina insomma. Perché il momento della svestizione è quello più pericoloso se non si è sterilizzato tutto con cura. Ma il caso è meno grave”.

E poi inizia la profilassi per questo virus letale di cui non si conosce ancora la cura:

“Terapie non ci sono, ma si procede con antibiotici ad ampio spettro, sostanze idratanti, farmaci anti vomito. «Tutte cose che nel 70% dei casi aiutano a uscirne vivi» garantisce Petrosillo. Così è per il «nostro» paziente 0, che dopo 3 settimane può tornare a casa. Senza virus e senza averlo trasmesso. Si spera”.

Ecco la mappa interattiva del contagio pubblicata da La Stampa e visibile cliccando qui.