Erich Priebke sepolto nel cimitero di un carcere. L’inchiesta di Ezio Mauro su Repubblica, le foto

di Redazione Blitz
Pubblicato il 7 Novembre 2013 - 09:11 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Il cimitero si trova in un carcere e sulla croce, di legno, c’è solo un numero. Un numero, che solo i figli potranno conoscere. E’ questo il luogo, segreto, dove è stato seppellito Erich Priebke. Ezio Mauro oggi (7 novembre) descrive il luogo (“Quando un cimitero è in disuso, anche se resta consacrato e il cappellano viene a benedire nel giorno dei Morti, tutto degrada in fretta. L’erba cresce selvaggia nel quadrato del piccolo camposanto, le povere lapidi scoloriscono, il legno delle croci s’incurva, la vecchia cappella in centro al recinto bianco e quadrato sembra chiusa da secoli”) e ripercorre l’altra storia di Erich Priebke, la storia del “pellegrinaggio” del cadavere, rifiutato da Roma e dall’Italia. Adesso, scrive Mauro, “la democrazia italiana ha compiuto il suo atto di civiltà e umanità. Senza perdere la memoria”.

Ecco uno stralcio dell’articolo di Ezio Mauro:

Così non serve il permesso di un sindaco, così soprattutto il luogo è protetto da possibili incursioni e strumentalizzazioni, così il corpo del boia può trovare una sua terra, sul suolo italiano, ma nel luogo dove si sconta la pena dopo la condanna.
Ecco dove sta andando quel carro funebre camuffato appena uscito da Pratica di mare. Un’auto civetta con due sottufficiali lo attende a un autogrill pochi chilometri dopo. Si mette in coda, come se fossero ancora possibili sorprese, farà da scorta fino alla prima tappa, due ore più tardi. Qui — sta finendo la notte — la bara trasborda, viene caricata su un altro mezzo. In piena domenica arriva a destinazione. Un altro cambio, un nuovo piccolo corteo, strade prima comode poi di mezza montagna, vento quasi d’inverno, alberi che si piegano, strade piene di foglie. Quando si alza la sbarra, il furgone passa davanti all’ultima bandiera italiana. Avanti, poi una strada bianca. Oggi non è giorno di lavoro e non è nemmeno giorno di visite, i detenuti sono in cella. Nessuno vede quando dal furgone i due sottufficiali calano pale e picconi, e incominciano a scavare la terra. Due ore dopo è tutto finito.
A Roma l’unità di crisi riceverà il messaggio che aspettava: tutto a posto, operazione terminata. Per sicurezza, il governo verrà informato qualche giorno dopo. Prima di ripartire gli uomini venuti da Roma piantano sulla tomba la croce di legno scuro che era stata intagliata nella capitale. Al centro non c’è un nome e neppure una data, solo un numero. Quel numero è conservato in una busta gialla con i sigilli nella cassaforte del funzionario che ha pilotato l’operazione. Verrà consegnato al figlio di Priebke che a dicembre arriverà da New York per visitare la tomba del padre, adesso che c’è la tomba.
Troppa segretezza? Qualcuno ricorda che fu proprio per l’ossessione della segretezza che i capitani delle SS Erich Priebke e Karl Hass decisero di uccidere i cinque prigionieri in più radunati per errore nelle cave, 335 anziché i 330 del calcolo esatto della rappresaglia: perché nessuno parlasse, in quanto l’azione doveva restare segreta. Poi la notizia dell’esplosione alle Fosse Ardeatine per chiudere l’accesso alle cave, i familiari dei prigionieri scomparsi che capiscono, vanno sul posto a deporre i loro fiori, e la segretezza non riesce più a nascondere l’orrore. Il Male, che doveva restare «sconosciuto persino al sole», non riesce a nascondersi e il mondo può sapere cos’è successo a Roma, quel rituale nazista da setta che compromette tutti nel sangue, con un colpo alla nuca assegnato ad ogni ufficiale e i militari che lavoravano negli uffici spinti nelle cave ad uccidere anche loro per condividere la carneficina, introiettandola. La segretezza non riuscì a impedire al mondo, da quel giorno in poi, di conoscere il significato dei nomi di Kappler e di Priebke.
È con questo carico impossibile da sopportare che il cadavere del capitano è arrivato nel luogo della sepoltura: tutt’altro che spoglio. Attorno all’uomo delle SS si muove un mondo prigioniero, ma in pace e non in guerra. La regola è quella banale della democrazia quotidiana. Le guardie non sono armate, nelle loro divise blu. I detenuti sono in gran parte extracomunitari, molti africani, non hanno mai sentito pronunciare il nome di Priebke, credono che il cimitero sia un fabbricato del passato, dove stanno rinchiuse vecchie storie quasi senza nome, non questa, viva anche dopo la morte. Paradossalmente, è un angolo di mondo nuovo, separato dal cancello di ferro arrugginito del cimitero. E proprio qui è venuto a finire il Novecento italiano, davvero lunghissimo e ancora capace di essere pauroso. Proprio qui, in un carcere e in gran segreto, quasi come se dovesse essere protetto da se stesso.
Le foto pubblicate da Repubblica: