Giornata mondiale del pesto Genovese. Coldiretti: “90% tarocco”

Pubblicato il 16 Gennaio 2011 - 15:56| Aggiornato il 24 Luglio 2013 OLTRE 6 MESI FA

La Giornata Internazionale delle Cucine Italiane, che si celebra lunedì in oltre 50 paesi, per il 2011 è dedicata al pesto genovese. L’occasione ha dato lo spunto alla Coldiretti per una dichiarazione che lascia perplessi perché, in nome della genuinità, mette sul chi vive indiscriminatamente i consumatori, senza però dare informazioni precise su cosa sia genuino e cosa no nel pesto.

La Coldiretti è una grossa organizzazione, con un milione e mezzo di iscritti, che si definisce “la principale organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale e a livello europeo”, quindi non c’è da scherzare su quello che dice, ma quello che dice dovrebbe anche essere forse più ponderato, altrimenti si traduce in un generale boicottaggio di un condimento sconosciuto fuori dei confini liguri fino a pochi anni fa, il cui uso ora è dilagato in tutto il mondo, dall’Oriente all’estremo Ovest americano, c’è chi lo ha trovato persino in un saloon nel Klondike, terra dei cercatori d’oro in Canada.

Afferma la Coldiretti. e riferisce l’Ansa, che la giornata del pesto genovese è “una occasione straordinaria per ricordare la vera ricetta di un condimento che più di nove volte su dieci viene offerto senza alcun rispetto per gli ingredienti originali, sulle tavole e nei supermercati di tutto il mondo”. Peccato però che poi la vera ricetta del pesto genovese non ci venga rivelata dalla Coldiretti e alcuni esperti di pesto genovese sostengano che un prodotto così popolare, diffuso e casalingo possa essere ingabbiato nella etichetta di doc.

Nel corso della Giornata della Cucina italiana, che è giunta alla quarta edizione ed è promossa dal Gruppo Virtuale dei Cuochi Italiani (GVCI), migliaia di cuochi prepareranno contemporaneamente il pesto genovese, secondo una ricetta autentica e lo presenteranno in maniera tradizionale, dopo aver fatto la stessa cosa nelle edizioni precedenti con la pasta alla Carbonara, il Risotto alla Milanese e le Tagliatelle al Ragù bolognese.

Sostiene la Coldiretti che “il pesto genovese è uno dei condimenti più taroccati a livello internazionale” al punto che  un intenso traffico di pesto tedesco etichettato con nomi italiani era stato denunciato dagli agricoltori della Coldiretti la scorsa estate durante il presidio del Brennero a tutela del Made in Italy.

Ma c’è di peggio, perché il pesto “viene spesso tradito nella sua preparazione anche in molti ristoranti ”italiani” in Italia e all’estero dove viene proposto con mandorle noci o pistacchi al posto dei pinoli e con il formaggio comune che sostituisce l’immancabile Parmigiano Reggiano e il Pecorino Romano”.

Questa affermazione contiene un clamoroso errore perché a Genova il pecorino romano non fa parte delle abitudini alimentari. Portare il pecorino da Roma a Genova sarebbe stato nei secoli un’impresa troppo costosa, tra navigazione e dogane. A Genova il pecorino per antonomasia è quello sardo, prodotto nello stesso Regno di Sardegna, formato da Piemonte, Sardegna e Liguria, che fino a metà dell’800 era un unico Stato. Cosa facevano i leudi e anche navi più grosse sulla rotta dalla Sardegna per Genova e Chiavari se non trasportare formaggio?

Un comunicato che se la prende contro il pesto taroccato e ignora il pecorino sardo a favore di quello romano e del parmigiano reggiano non appare molto in palla. Ancor meno credibile lo sembra dal momento che, dopo essersi preoccupato di difendere l’insostituibilità dei due suddetti formaggi, si precisa proprio quelli, il parmigiano reggiano e non altri parmigiani, ad esempio, non si proccupa invece di insegnarci come e con che cosa lo si debba fare.

Proviamoci noi: in un mortaio di marmo una volta , in un frullatore oggi, si mettono foglie di basilico, pecorino sardo e un po’ di parmigiano, pinoli, olio e uno spicchio o due d’aglio. Nel mortaio si pestava ben bene, da qui il nome della salsa, con un pestello di legno, fino a quando tutto si amalgamava in un liquido denso di colore verde brillante, destinato a scurirsi sempre di più per l’ossidazione. Oggi la fatica è lasciata al frullatore ma il risultato è simile.

Una organizzazione così autorevole come la Coldiretti che lancia un simile allarme contro il pesto rischia di fare molto male a chi coltiva basilico, perché è alto il rischio che gli amanti del pesto non genovesi, spaventati , girino le spalle a questo condimento, non fidandosi più dei produttori o del ristorante che l’ha messo in menù.

C’è infine da chiedersi se esista un pesto doc, contrapposto a tutte le altre forme di tarocco. Certo, a Genova dicono che il pesto migliore è quello fatto con il basilico di Prà, paese della riviera di Ponente, a pochi chilometri da Genova, la cui terra, sulla retrostante montagna che scende fino al mare e che geologicamente fa ancora parte delle Alpi Marittime, sembra possedere i requisiti ideali per un basilico straordinario. Non c’è besagnino, cioè fruttivendolo, a Genova, che non spergiuri che il suo basilico è proprio di Prà e non c’è rosticceria dove si venda pesto fatto in casa sfuso che garantisca che la materia prima è quel basilico di Prà. Sarà vero?

Certo il pesto fatto a Genova ha un sapore unico e i genovesi della diaspora rifiutano con sdegno il basilico prodotto in altre terre, sotto altri soli: le foglie a Genova sono piccoline e  tenere, altrove sono grandi e dure e non dipende dalla crescita ma proprio dal tipo di pianta. Ma questo allora cosa vuol dire? Che il pesto autentico lo si mangia solo a Genova e dintorni? E se i vecchi contadini dei monti liguri nei mesi freddi suppliscono alla mancanza di basilico con il prezzemolo, dovranno ora essere denunciati per sofisticazione alimentare?

C’è poi il tema dell’aglio, che ci va nel pesto senza remissione. Ma se un produce un pesto senz’aglio, per chi è di stomaco incompatibile, viene arrestato? E il pesto di Puny di Portofino, che toglie il germoglio dentro lo spicchio dell’aglio in modo da neutralizzarne il forte gusto e renderlo accettabile al palato dei ricchi milanesi che lo frequentano, Berlusconi incluso, è da sequestrare come non doc? Lo stesso si può dire del pesto di Bouley, a New York, che una ventina d’anni fa lanciò la voga del pesto, abbinato col pesce, in cui erano difficilmente distinguibili tanto il gusto dell’aglio quanto quello del formaggio: gli vogliamo fare la contravvenzione?

Anche sul formaggio ci sarebbe da dire, perché è anche capitato di trovare un pesto fatto su misura per chi è allergico al formaggio, e quindi senza pecorino né parmigiano, con un risultato più che accettabile.

In realtà il pesto è un’idea: erba profumata, pestata fino a trasformarla in liquido, amalgamata dall’olio (ma che olio? e se l’olio è pugliese o peggio ancora spagnolo che si fa? chiamiamo il Nas?), coagulata dal formaggio e arricchita con dei pinoli e dell’aglio. Perché prendersela se qualcuno lo fa diverso da quello classico che si fa Genova, perché mancano gli ingredienti e si arrangia come può?

I genovesi, che sono gente semplice, si accontentano di poco e si commuovono a leggere la parola pesto nel menu del lussuoso Bouley come in Alaska. Col loro complesso di inferiorità sono già entusiasti di scoprire che nel mondo non conoscono solo la pizza. Col loro senso pratico e mercantile sanno che imitazioni e tarocchi sono la misura del successo.