Alberto Bergamini titano dimenticato e il fascismo: inventò la terza pagina, fondò il Giornale d’Italia, ma…

di Marco Benedetto
Pubblicato il 11 Febbraio 2019 - 06:04| Aggiornato il 5 Agosto 2019 OLTRE 6 MESI FA

Alberto Bergamini oggi quasi nessuno ricorda chi fu. Passò alla storia del giornalismo in Italia per avere inventato la terza pagina. Ma oggi siamo rimasti in pochi a ricordare anche la terza pagina. Superata fin dagli anni ’50 dal Giorno di Baldacci, spostata a centro giornale dalla sezione cultura della Repubblica di Scalfari, mandata in archivio da tutti i quotidiani negli anni ’80.

Bergamini fondò e diresse per decenni Il Giornale d’Italia, protagonista della scena giornalistica romana e italiana. Il Giornale d’Italia ha chiuso nel 1976: i nati in quegli anni sono oggi signore e signori quarantenni, in maggioranza le notizie le prendono da internet.

E, fatto più allarmante, siamo in pochi anche a avere chiaro il parallelo che corre fra l’Italia di oggi e quella del primo quarto del ‘900 in cui visse e operò Bergamini.

La sua fu una lunga vita, dal 1871 al 1962 fanno 91 anni. Nacque a San Giovanni in Persiceto (oggi parte della città metropolitana di Bologna). Morì per un banale incidente, batté la testa per un malore che lo colse nella biblioteca del Senato a Roma.

Dedicato a Alberto Bergamini è il libro di Giancarlo Tartaglia intitolato “Il giornale è il mio amore”, sottotitolo: “Alberto Bergamini inventore del giornalismo moderno”. Editore è All Around, per la Fondazione sul giornalismo Paolo Murialdi.

Per un vecchio giornalista come me, quelle in cui Tartaglia ricostruisce come si arrivò alla produzione industriale del Giornale d’Italia sono pagine commoventi. L’arrivo della rotativa Koenig e Bauer nello scantinato di Palazzo Sciarra, nel cuore di Roma, su via del Corso; la descrizione di come Bergamini si aggirava fra i banconi della tipografia tenendo assieme, in precario equilibrio, decine e decine di righe di piombo da incastrare nei tegami d’acciaio in cui si formavano le pagine; risvegliano ricordi quasi commoventi. Mi ritrovo a sentire il cuore a stantuffo quando, nel cuore della notte, per tante notti, le rotative cominciavano a girare. Mi ritrovo ancora liceale sentire, dalle finestre della tipografia del Secolo XIX che si affacciavano su salita di San Matteo, il rumore delle matrici di rame delle linotypes che calavano a formare le righe in cui sarebbe colato il piombo fuso. Pino Donaggio cantava Come Sinfonia, ma quella delle linotypes era davvero una sinfonia meravigliosa.

Ma ormai quelli come me costituiscono una specie neppure protetta, visto come ci vorrebbero morti e comunque ridotti in povertà.

Attenzione, però. Quello di Tartaglia su Bergamini non è solo un libro di bottega, da leggere con curiosità se sei della confraternita dei giornali.

Il libro su Bergamini è ben di più. Scritto con la freddezza e il distacco di un analista scettico, ricostruisce un pezzo importante di storia d’Italia, dall’attentato a Umberto I al fascismo alla nascita della nostra Repubblica. Non è solo la scoperta di dettagli ormai dimenticati della fase eroica del giornalismo italiano, giornali di 4, 6 massimo 8 pagine (eppure vendevano più dei paginifici di oggi e del recente passato), diretti da titani come Luigi Albertini o Alfredo Frassati. In queste 274 pagine è condensato il racconto di come la classe dirigente, o come si direbbe ora le élites, italiana, fu vittima della illusione che Mussolini avrebbe fatto per loro lo sporco lavoro di sventare il “pericolo rosso” per poi tornarsene a cuccia. Ci cadde, perché salvò la dinastia, anche il re Vittorio Emanuele III che in parte ci riuscì, arrivando a licenziare e arrestare il Duce, ma alla fine la pagò anche lui, con la fine della monarchia e l’esilio per sé e per il figlio. There is non free lunch, non c’è pasto gratis.

Quando le élites dell’epoca se ne resero conto era troppo tardi. Bergamini arrivò a dire, fin dal 1923, che il “pericolo rosso” era scemato non grazie a un partito o una fazione, ma per la risposta “spontanea di tutte le forze vive del Paese”. Il fascismo, riporta Tartaglia il ragionamento, era sceso in campo, al momento opportuno, per attribuirsi i frutti della vittoria. Purtroppo da un anno Mussolini aveva trasformato l’aula sorda e grigia della Camera nel bivacco dei suoi manipoli.

Leggere queste pagine non può non darvi un brivido. La storia si ripete, la corte del Pd ai grillini ricorda l’Aventino e le ambiguità dei popolari, per non parlare delle destre.

Il quadro di sfondo è quello della Italietta di Policarpo de’ Tappetti.

Gente rispettabile, onestissima ma abbastanza incapace e inadeguata. Tolti Cavour e Garibaldi, il resto del mondo che ha portato l’Italia all’unità è palude di ideologia e provincialità. Pensate alle giravolte fra Germania e Francia che il governo italiano compì prima della infausta entrata in guerra nel ’15. Incapaci di resistere alla piazza, sterminarono una generazione e non ottennero quasi nulla se non il disprezzo degli inglesi, dei francesi e buon ultimo in disastroso Wilson. C’è, in un libro sulla Conferenza di Versailles, Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo, di Margaret Macmillan, un crudele ritratto dei due rappresentanti italiani Vittorio Emanuele Orlando (primo ministro) e Sidney Sonnino (primo finanziatore del Giornale d’Italia e per tutta la vita riferimento politico e morale per Bergamini) nel ruolo di ministro degli esteri e firmatario di quel Patto di Londra del 1915, che gli americani considerarono carta straccia ma in base al quale (ancorché segreto) morirono seicento mila ragazzi italiani. Se non ammetete che fu vittoria mutilata, siamo davanti a un bel caso di auto illusione tutta italiana.

Tartaglia sintetizza l’umiliazione e il fallimento di Versailles in queste righe: “Orlando aveva parlato in tutte le lingue che non conosceva, Sonnino [anglofono per parte di madre] aveva taciuto in tutte le lingue che conosceva”. Fuori di battute, fu il voltafaccia inglese e americano a mettere in crisi gli italiani e “Sonnino aveva compreso che non vi erano più margini per garantire all’Italia gli obiettivi che si era prefissato”. Non c’è da stupirsi se si pensa agli errori americani rispetto alla conduzione della guerra in Italia e soprattutto al tradimento inglese nei confronti di ucraini e polacchi, che avevano creduto nelle democrazie occidentali e sotto le loro bandiere combattuto, cinicamente e spietatamente consegnati allo sterminio di Stalin.

Non c’è molta differenza, a parte le conseguenze oggi almeno per ora meno tragiche, rispetto alle figuracce che collezioniamo in giro per il mondo, dai recenti exploits degli ineffabili Di Maio e Di Battista, all’umiliazione indiana dei marò, alla generale incapacità di avere ruolo e peso in Europa portata al massimo da Berlusconi.

Leggendo le pagine di Tartaglia, a volte devi fare mente locale per capire che non si parla del presente ma di un secolo fa: “Oggetto della polemica [di Bergamini…] nella “campagna contro tutta la ladroneria cooperativistica erano i miliardi su miliardi concessi alle cooperative socialiste e gli aiuti alla Banca di Roma, legata al Partito Popolare”. È scritto in uno scambio di lettere fra Bergamini e Sonnino fra il 1921 e il 1922. È passato quasi un secolo ma non sembra.

Tartaglia è lui stesso a pieno diritto una parte della storia del giornalismo italiano dell’ultimo mezzo secolo. Come direttore della Federazione Nazionale della Stampa, il sindacato unitario dei giornalisti, ha messo la firma su decine di rinnovi contrattuali, transazioni sindacali, accordi nazionali e locali con gli editori. Lo conosco proprio dal 1976, quando ancora era  secondo al suo predecessore Pozzo, quando la Fnsi pensava come espropriare la Fiat della pubblicità della Stampa (e magari anche della proprietà) per girare i soldi alla Gazzetta del Popolo di Donat Cattin, quando Giovanni Giovannini diventò presidente e trasformò una legge sulla editoria destinata a punire gli editori nello strumento che portò i giornali italiani fuori della crisi, facendoli approdare in una nuova stagione di crescita e prosperità. Ma non c’era internet, Berlusconi era agli esordi, la Rai concordava con gli editori il tetto massimo di miliardi di lire della sua raccolta pubblicitaria. Oggi…oggi…be’ forse degli ultimi anni è meglio non parlare, c’è solo da piangere.

“Il giornale è il mio amore. Alberto Bergamini inventore del giornalismo moderno” è un saggio perfetto e magistrale, pieno di citazioni, dalle cui pagine traspare una ricerca come non si usa più. Ma è anche un romanzo di politica, avvincente, appassionante. Lo stile è piano, chiaro, sembra un manuale, si legge tutto d’un fiato, come un romanzo. Cosa rara di questi tempi di eccessive circonlocuzioni.

Si incontrano nomi noti dai libri di scuola: Sidney Sonnino, Antonio Salandra, Giovanni Giolitti, Luigi Facta, Luigi Salvatorelli, Vittorio Emanuele Orlando, Dino Grandi…

Alcuni di loro, in queste pagine assumono la terza dimensione, proiettano ai nostri giorni l’immagine di una Italia e di una Roma che fu. Sonnino era presidente del Consiglio, Bergamini aveva la redazione in via del Corso, andavano a piedi nel centro di Roma, si incrociavano forse dove oggi ci sono i blindati che tengono le automobili lontane dal palazzo di Fendi. Niente sirene, scorte, autoblu.

E di un mondo che fu. Bergamini fu fatto nominare senatore da Giolitti, che lo stesso Bergamini aveva contrastato e avversato senza mai abbassare i toni. Bergamini fu nominato assessore comunale a Roma dal sindaco del dopoguerra Rebecchini, quest’ultimo repubblicano e democristiano, Bergamini monarchico fino alla morte.

Sembrano fiabe di Natale lette ai tempi nostri di feroce spoil system lottizzatore.

Ma questi sono solo dettagli romantici. Tema dominante sono la vita e la carriera di Alberto Bergamini, dal suo esordio all’Eco di Persiceto (Bologna), poi il Corriere del Polesine, poi la redazione romana del Corriere della Sera, la fondazione del Giornale d’Italia, il seggio di senatore del Regno.

C’è un po’ di Scalfari in questa traiettoria, solo che nessun presidente della Repubblica ha avuto il quid per nominare Eugenio Scalfari senatore a vita, preferendogli Mario Monti, quello cui dobbiamo la nostra crisi senza scampo e il trionfo grillino.

Non voglio dilungarmi per non esagerare col numero delle parole (sono già a quota 1.300) e per non privarvi del piacere della lettura. Ma un paio di temi vorrei sottolinearli.

La pericolosità dell’Ordine dei Giornalisti, che ai tempi di Bergamini si chiamava Albo, balza agli occhi dalle pagine di Tartaglia in tutta evidenza. Tartaglia è sobrio, quasi asettico, come è il suo stile e come impone il suo ruolo di tecnico del sindacato. Però in un paio di passaggi facile è estrarre dal racconto del passato i rischi del presente, per me sempre maggiori in questi tempi di fobia delle fake news e di moralismo degno della caccia all’untore.

Succede quando Tartaglia descrive come Mussolini estromise dal giornale e dal giornalismo Alberto Bergamini: facendolo radiare dall’Albo. Se non eri iscritto all’Albo, se non sei iscritto all’Ordine, non puoi lavorare come redattore, in un giornale o sito internet iscritto al Registro della stampa e in Tribunale, men che mai dirigerlo. Altri tempi? La legge sulla diffamazione concepita da tutti i partiti, Pd in testa, nella scorsa legislatura, prevedeva, cosa mai avvenuta dalla nascita della Repubblica, il deferimento all’Ordine dei reprobi e la sospensione e quel che segue. Per fortuna è deragliata, ma non escluderei che ci riprovassero. Come hanno definito i giornalisti i due cari Di Maio e Di Battista? Leggete qui, non voglio riprodurre parolacce. È lo stesso linguaggio usato dai fascisti. Per loro, i giornalisti non allineati erano “canaglie fino al midollo delle ossa”. Vedete un po’ voi.

L’altro aspetto della vita di Bergamini che colpisce in questa biografia professionale e politica di Bergamini (non aveva vita privata, non prese mai moglie, gli bastava una governante) è la sua quintessenzialità giornalistica. I giornalisti a volte si pensano maestri di politica. I disastri provocati dal giornale partito li stiamo scontando da qualche anno e il peggio deve ancora venire.

Bergamini era giornalista fin nel midollo, reporter implacabile al punto di mettere in imbarazzo con i suoi scoop i suoi amici come Sonnino.

Fra i vari episodi che Tartaglia riferisce, ce ne è uno che al contrario di tante similitudini colpisce per quanto la professione è cambiata. Siamo a fine 1898. Bergamini ha 27 anni e è stato da poco assunto nella redazione romana del Corriere della Sera. Pochi mesi prima, a Milano, il generale Bava Beccaris aveva preso a cannonate un gruppo di manifestanti. C’era lo stato d’assedio. Politici e militari erano stati condannati a molti anni di carcere. La Corte di Cassazione, cui i condannati avevano fatto ricorso, aveva pronta la sentenza che però non era stata depositata. Bergamini fece lo scoop. Impegnò l’orologio d’oro, ottenne le 500 lire chieste da un cancelliere per fornire una copia delle motivazioni. Bergamini lo aveva individuato, fra i vari impiegati “magri e allampanati”, perché era il più pallido di tutti. Il direttore Albertini gli rimborsò le 500 lire e Bergamini riscattò il suo orologio.

Una cosa simile non sarebbe possibile oggi. Ma l’incapacità della classe dirigente, politica ma anche imprenditoriale, di una visione strategica con un po’ di respiro, quella sembra costituire una costante. Spero tanto di sbagliarmi.