L’aspra stagione di Carlo Rivolta

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 14 Aprile 2012 - 07:00| Aggiornato il 13 Dicembre 2012 OLTRE 6 MESI FA
Carlo Rivolta nel 1977

ROMA – Chi era Carlo Rivolta? Molti di quelli che leggevano giornali e avevano più di 18 anni e meno di 35 a cavallo fra gli anni 70 e 80 se lo ricordano bene: fu il cronista che per Paese Sera e La Repubblica raccontò le strade di quegli anni, agitate dai cortei, dagli scontri e poi dalle pallottole; le piazze del centro di Roma invase dai fascisti e quelle della periferia invase dall’eroina; l’università dalla quale fu cacciato Luciano Lama, l’incrocio nel quale fu rapito Aldo Moro, il terremoto che sbriciolò l’Irpinia, il pozzo in cui cadde Alfredino Rampi. Eppure, nonostante abbia scritto di fatti così importanti per la storia italiana, Rivolta è un giornalista semisconosciuto per chi ha più di 18 anni e meno di 35 adesso, nel 2012. Dimenticato perché morì (a soli 32 anni) esattamente tre decenni fa, il 16 febbraio 1982, quando una crisi d’astinenza da eroina lo portò sul cornicione del muro di casa dal quale cadde in un volo probabilmente involontario.

Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale, autori de L’Aspra Stagione (Einaudi Stile Libero, 18 euro), hanno più o meno la stessa età che aveva Rivolta nel 1982, ma hanno saputo trasformare una presunta mancanza – non essere vissuti in quel momento storico – in una “giusta distanza” dai fatti che mostrano al lettore in un “oggetto narrativo non identificato” (definizione cara ai Wu Ming per un libro che non è né un romanzo, né una biografia, né un saggio) che shakera i ricordi di una quarantina di testimoni diretti, rapporti di polizia e articoli dello stesso Rivolta, in un cocktail che ha il sapore della fiction e la sostanza del documentario.

Con una sceneggiatura à la Tarantino che smonta e rimonta la cronologia degli eventi, la scrittura jazz di De Lorenzis e Favale usa la vita e gli articoli di Rivolta per restituire al lettore l’Italia che fu stampata sui giornali dal 1973 al 1982 e anche un po’ di quella che non fu mai stampata. Lo fa a volte usando il controcampo delle informative di polizia (prese dagli atti della Commissione d’inchiesta del Senato sul caso Moro e sul terrorismo) a volte azzardando un what if, un “cosa sarebbe successo se”: a un certo punto ne L’Aspra Stagione si legge un’agenzia Ansa mai trasmessa: quella che annuncia la vittoria del Pci alle elezioni politiche del 1976.

C’è l’Italia che viene stampata sui giornali e ci sono i giornali che la stampano. Un’altra storia nelle storie che il libro di De Lorenzis e Favale racconta è quella dei quotidiani in cui Rivolta ha lavorato. Paese Sera fino al 1975, poi La Repubblica fino al 1981, Lotta Continua nel suo ultimo anno di vita, di Carlo e del giornale.

In Paese Sera, giornale controllato dal Pci ma non organo ufficiale del partito come l’Unità, Rivolta impara e mette in pratica il mestiere del cronista. In un quotidiano che arriva a tirare fino a sei edizioni al giorno, che macina notizie inseguendole per le strade di Roma, Sandro Curzi è vicedirettore e Rivolta diventa presto una delle firme della cronaca. Parla di politica, per lo più extraparlamentare, di droga, di rivolte carcerarie. Di delitti. Senza mai sbattere il mostro in prima pagina. Garantista soprattutto con i più deboli, nei suoi pezzi sfida il giustizialismo da maggioranza silenziosa rendendo conto anche del punto di vista dei fermati, degli arrestati, dei carcerati. Se non sono gigli / son pur sempre figli,/ vittime di questo mondo, aveva cantato qualche anno prima Fabrizio De Andrè. Capita, a Rivolta, anche di prendere grosse cantonate: come nel 1973, quando sposò la tesi della pista nera nel “rogo di Primavalle”, attentato compiuto da membri di Potere Operaio che portò alla morte dei fratelli Mattei, figli del segretario di una sezione del Msi.

Nel 1975 il grande salto: Rivolta entra in un giornale che sta per nascere, La Repubblica. Il 14 gennaio 1976, c’è la sua firma in un articolo sulla prima pagina del primo storico numero del quotidiano che allora aveva la sede in Piazza Indipendenza. A pagina sei c’è il “manifesto” del fondatore Eugenio Scalfari:

È un giornale di informazione il quale, anziché ostentare una illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente di aver fatto una scelta di campo. È fatto da uomini che appartengono al vasto arco della sinistra italiana, consapevoli di esercitare un mestiere, quello appunto di giornalista, fondato al tempo stesso su un massimo di impegno civile e su un massimo di professionalità e di indipendenza. Spesso questi uomini risulteranno scomodi, tanto più scomodi quanto più sono liberi da condizionamenti di ogni sorta.

Uomini scomodi come Carlo Rivolta, che insieme a una pattuglia di colleghi coetanei porta sulle pagine di Repubblica una versione non paludata dei fatti che stanno accadendo nelle strade. Il giornale di Scalfari trova subito una sua nicchia di lettori nei giovani e nei protagonisti in positivo e in negativo di quegli anni. Protagonisti che si rileggono nelle cronache di Rivolta e non sempre apprezzano la fotografia nitida che ne emerge. Quando le Brigate Rosse mandano una foto di Aldo Moro per dimostrare che è vivo, il giornale che gli mettono in mano è La Repubblica. A essere crudeli, lo si potrebbe definire un involontario guerrilla marketing ante litteram. Anche le Br, quindi, leggono Repubblica. E proprio per questo quel cronista che nella stagione dei cortei era uno conosciuto e rispettato, diventa il “primo della lista” nella stagione della lotta armata, che non ama essere raccontata e nel bravo giornalista vede un nemico, una spia.

Ma a turbare Rivolta non è solo la “razione di piombo” che nel 1979 un comunicato brigatista promette a lui e altri due colleghi, Enrico Deaglio e Mario Scialoja. È soprattutto l’isolamento di cui inizia a soffrire nel giornale che dal 16 marzo 1978, data del rapimento di Moro, smette di essere un “vino frizzante” e diventa un “vino fermo”. Repubblica sposa in pieno la linea della fermezza durante il sequestro Moro e nelle maglie strette della “solidarietà nazionale” non c’è più posto per gli uomini scomodi. Un malessere che lo stesso Rivolta spiegherà, intervistato dall’amico Giovanni Forti qualche mese prima di morire:

A me interessava essere un giornalista critico verso la mia professione e, dal punto di vista politico, un militante critico verso la mia stessa area di appartenenza. Il mio punto di riferimento è sempre stato il lettore. Tutto quel che venivo a sapere – intrighi, scontri, episodi poco edificanti – lo scrivevo, pari pari. […] Pensavo che i giornalisti avessero il dovere di riferire su tutto quello che vedono, ma che il giudizio ultimo fosse dei lettori. È meglio non essere ipocriti e dire chiaramente che dai giornalisti oggi si vuole un lavoro di schieramento e non di testimonianza. Credo che ci vogliano tutti convinti di dover difendere a ogni prezzo questo Stato così com’è. Ma questa non è la nostra funzione, questa è una scelta individuale, soggettiva, non coatta. A questo punto, fra le revolverate dei terroristi che non apprezzano i giornalisti indipendenti e le galere di chi vuole i giornalisti poliziotti per sopperire alle insufficienze dell’apparato repressivo dello Stato non resta che una scelta: disertare. Nel nostro caso […] lasciare che a scrivere siano gli iscritti ai partiti, i mezzo busto, i commentatori autorizzati con la patente, i reporter stipendiati dai palazzi del Sid e dalle veline dei tribunali.

Un giornalismo così non trovava più cittadinanza allora e la troverebbe con molta difficoltà adesso. Con la cronaca (nera, bianca, rosa, giudiziaria, sportiva…) che invece di usare le fonti finisce per esserne più spesso usata, partorendo così articoli con un unico punto di vista, quello della fonte. O reagendo ai fatti con gli aggettivi, preferendo l’indignazione all’indagine, il testo urlato all’analisi del contesto.

Il giornalismo di Rivolta sapeva tenere “il culo in strada” e quindi sapeva raccontare le periferie, le storie dei brutti, degli sporchi e dei cattivi. Adesso è molto più frequente il “giornalismo Ztl“, barricato nel centro di Milano o di Roma, che viene trascinato nei quartieri popolari (o nelle regioni periferiche) solo da gravi fatti di cronaca, quando nel migliore dei casi produce reportage paternalistici in cui il Livingstone, l’esploratore di turno, narra le periferie come una savana inospitale e i loro abitanti, gli “indigeni”, come dei “buoni selvaggi”.

Così Rivolta si ritrovò “apolide” in un’epoca di mezzo. Se il ’68 fu un anno che durò un decennio e gli anni 80 furono un decennio che durò trent’anni, fra il 1977 e il 1982 ci fu una lunga transizione che si concluse solo, idealmente, con la sbornia della vittoria ai mondiali di Spagna. Rivolta raccontò quella transizione, vivendola sulla propria pelle. Per primo aveva avvistato la grande onda dell’eroina, che avrebbe travolto le strade. Ma i suoi reportage profetici su quella droga finirono per diventare autobiografici, complice l’isolamento in cui lo aveva gettato il suo essere “scomodo”. L’apolide aveva trovato un passaporto per un viaggio di sola andata. Per il reporter che aveva sostituito la penna con la siringa, la vita di redazione si faceva sempre più difficile. Così Giampaolo Pansa ricorderà il collega Rivolta, due anni dopo la morte:

“La vita di un quotidiano è assai diversa da come molti l’immaginano: pochi misteri, assenza di strategia sofisticata, nessun doppio o triplo livello. In compenso a volte è arida, quasi brutale. La ragione è semplice. C’è una cosa che va prodotta ogni ventiquattro ore, e questo impone ritmi e doveri non sempre facili da sopportare e da onorare. Se non stai alle regole, a pagare per te è il tuo vicino di tavolo, costretto a portare anche il tuo peso. Ecco un esempio di sistema. Inquieto, tormentato dalle sue infelicità, a questo sistema talvolta Carlo Rivolta si sottraeva, si dichiarava refrattario”.

Il refrattario Rivolta nel 1981 lascia La Repubblica. Enrico Deaglio lo accoglie a Lotta Continua, giornale morente così come Rivolta, che però ha modo di mostrare le sue qualità di inviato in due occasioni apparentemente diversissime fra di loro. Ma lui riesce a scrivere con lo stesso rigore e felicità espositiva di Fasano, la “Mecca” dello spaccio di eroina nel Mezzogiorno, e dell’Afghanistan in cui “un esercito straccione riesce con mezzi di fortuna a tenere testa alla seconda potenza militare del mondo (i russi, ndr)”. Sono gli ultimi fuochi d’artificio prima di crollare sotto il peso della tossicodipendenza e del ritorno a Roma. Nel suo ultimo articolo datato gennaio 1982 scriverà: “Non cambia nulla in città”.