Gelatai, sarti, giardinieri: cento storie di lavori in carcere

Pubblicato il 28 Aprile 2011 - 08:14 OLTRE 6 MESI FA

MILANO – Duecento pagine che raccontano i prodotti “made in carcere”, come recita il sottotitolo del libro edito da Altreconomia e curato dal suo direttore Pietro Raitano. “Il mestiere della libertà” è un viaggio attraverso le storie delle amministrazioni penitenziarie in cui i detenuti fanno lavori artigianali producendo dalla frutta biologica ai vestiti, dai biscotti al gelato, ma si occupano anche di servizi di catering o di coltivare piante pregiate che poi sono vendute in un negozio fuori dalle mura del carcere.

«Il lavoro per i detenuti è obbligatorio. La legge chiede che le amministrazioni penitenziarie facciano di tutto perché questi svolgano un’attività remunerata, ma la mancanza di fondi crea forti difficoltà – spiega Raitano – In Italia le carceri ospitano oggi 68 mila persone, delle quali soltanto 14 mila lavorano. A loro volta in 12mila lo fanno stipendiati dall’amministrazione penitenziaria». Ciò significa che la quasi totalità dei carcerati impegnati in un’attività lavorativa pulisce, cucina o distribuisce il vitto, si occupa della manutenzione della struttura oppure della lavanderia.

Ma c’è un altro modo di dare un lavoro a chi si trova in prigione, e attualmente riguarda i restanti 2 mila detenuti: vengono assunti da cooperative esterne. «L’amministrazione penitenziaria dà in comodato d’uso gratuito parte dei propri locali – prosegue il direttore di Altreconomia – E la cooperativa o l’azienda di riferimento ha anche altri vantaggi, come la possibilità di pagare gli stipendi per una cifra pari a due terzi rispetto a quanto previsto dai contratti nazionali o quella di ottenere sgravi fiscali legati al valore etico e sociale dell’attività svolta».

Secondo le stime del ministero della Giustizia per chi ha lavorato durante il periodo di detenzione i casi di recidiva si abbasserebbero al 10 per cento, mentre per chi non ha svolto attività lavorative il dato è pari al 70 per cento.

Il libro è una mappa delle cento realtà di questo tipo presenti nel nostro paese ed è stato scritto principalmente per uno scopo divulgativo, perché si tratta di storie di cui si conosce poco o nulla. «I prodotti che vengono realizzati dai detenuti sono tutti di tipo artigianale e per questo motivo la loro qualità è straordinaria – ha aggiunto il direttore – sono squisiti i dolci della Banda Biscotti del carcere di Verbania, i taralli di quello di Trani, di splendida fattura i vestiti realizzati dalla cooperativa Alice di San Vittore e i mobili prodotti dai detenuti di Fossano e da quelli di Barcellona Pozzo di Gotto».

Fra gli esempi storici c’è il carcere di Bollate (Milano), la cui struttura è stata pensata per essere il più possibile adatta al lavoro, da segnalare il progetto “Cascina Bollate”, con la coltivazione di piante e fiori per appassionati; altro caso significativo è quello di Gorgona (arcipelago toscano), in cui i detenuti coltivano la terra e allevano gli animali fra cui le orate.

La distribuzione dei prodotti sta ancora attraversando una prima fase di sviluppo: il sito web del ministero della Giustizia ha una parte dedicata all’elenco dei prodotti “made in carcere”, «ma il più delle volte per acquistare questi prodotti bisogna rivolgersi alle singole realtà che spesso hanno un proprio sito internet o un negozietto» – ha concluso Raitano – «Noi chiediamo ai consumatori di sostenere questa economia, che restituisce dignità al lavoro e sicurezza ai cittadini, semplicemente comprando i prodotti che peraltro sono di ottima qualità».

Soltanto due i casi di canali di distribuzione consolidati: la Coop, che ha venduto le orate di Gorgona e i gelati Aiscrim del carcere di Opera, e Ctm Altromercato, organizzazione di commercio equo e solidale che conta 350 punti vendita in Italia e che da marzo ha inserito fra i propri prodotti quelli provenienti dall’economia carceraria.