La perdita del potere e la solitudine del banchiere: “Buonasera, dottor Nistico” di Antonio Del Giudice

di Bruno Nacci
Pubblicato il 21 Novembre 2014 - 15:43 OLTRE 6 MESI FA
La perdita del potere e la solitudine del banchiere: "Buonasera, dottor Nistico" di Antonio Del Giudice

La perdita del potere e la solitudine del banchiere: “Buonasera, dottor Nistico” di Antonio Del Giudice

ROMA – Fin dalla prima pagina del romanzo, vengono in mente La resa dei conti di Saul Bellow, il Il presidente di Georges Simenon (non a caso ripetutamente citato da Del Giudice), ma anche l’inquadratura iniziale di A proposito di Schmidt, il bel film interpretato da Jack Nicolson. Storie di uomini rimasti improvvisamente soli che, arrivato il momento di andare in pensione, un tracollo finanziario, la malattia o semplicemente l’inesorabile legge della vecchiaia, vengono crudelmente estromessi dal gioco. Il loro smarrimento non deriva da preoccupazioni fisiche o morali ma dal fatto di trovarsi all’improvviso a dover fare i conti con se stessi. Erano abituati ad essere circondati da collaboratori, questuanti, amici, finti amici, clienti, profittatori, subordinati, ruffiani, la cui presenza costante e importuna confermava però in loro la certezza di essere al centro di una fitta trama di interessi e di affari, ma anche di affetti veri o presunti, che era garantita dal denaro, godendo di quella sottile e invincibile malia che va sotto il nome di potere. Ma mentre il ricco e intraprendente McKoy del Falò delle vanità di Wolfe, precipita nel girone infernale che lo inghiotte da un momento all’altro, togliendogli tutto quello che ha, il Dott. Nisticò, direttore generale di una banca indagato per una grossa operazione finanziaria dai contorni poco chiari, sgombera da sé il campo senza dare battaglia, rinchiudendosi in casa come all’interno di una ridotta militare da dove aspetterà gli eventi.

Il romanzo inizia in quel preciso momento, e d’ora in poi non sarà che l’estenuato monologo di un uomo arrivato a fine corsa che, proprio quando avrebbe più bisogno di conforto, scopre di essere stato abbandonato, afflitto da quella solitudine che non consiste nella segregazione in un eremo o in un ospizio, ma nella consapevolezza di avere dissipato e reciso nel corso della vita ogni tipo di legame non fondato sul possesso. Nisticò è un cinico che, risvegliatosi da un lungo letargo (anche se nel romanzo, al contrario, più volte egli chiama la sua condizione attuale con termini che ricordano il sonno o il letargo), capisce di avere vissuto contro se stesso. Le modeste origini, il ricordo dei genitori, dei nonni e di un fratello, della scuola, degli inizi della carriera, dei primi tempi del matrimonio, dei figli piccoli, esercitano su di lui il fascino ambiguo di un impossibile ritorno, costringendolo a misurare l’enormità della sua metamorfosi. Non può tornare perché non è più quel ragazzo, quell’uomo, né gli altri sono quelli che erano, e tutto questo, ora gli è chiaro, a causa sua. Al culmine della carriera e del successo ha distrutto anche la vita famigliare, per una sorta di ubris, il desiderio prepotente di espandersi, di volere sempre di più: soldi, emozioni, sesso. Ha avuto un’amante, oltre a innumerevoli avventure, per cui ha quasi abbandonato la famiglia. Ma anche in questo caso, la sua insensata fame di potere gli ha impedito di compiere una scelta che lasciasse liberi gli altri: voleva l’amante e la famiglia, la passione inebriante e il caldo, confortevole nido di una casa. Con il risultato di perdere entrambi.
Ma, per citare un altro film famoso (Magnolia), se noi ci dimentichiamo del passato, il passato non si dimentica di noi, e proprio nel momento del suo maggior sconforto, sepolto in una famiglia che lo considera un estraneo, il passato si rifarà vivo per un ultimo oltraggio. Nisticò, questo italiano di provincia, così simile a tanti, bulimico (e non solo in senso metaforico, perché ricorrono nel romanzo gli accenni a mangiate e bevute, cibi sopraffini e ristoranti di lusso), sospettoso, sarcastico, gaudente, davanti alla morte, quella civile del suo affrettato pensionamento e quella biologica a cui si allude grazie a una inquietante macchia rossastra, si ritrae spaventato, offrendosi al tempo stesso in pasto al destino, quasi a voler tenere saldamente tra le mani il gioco, fino all’ultimo.

Nisticò non è un personaggio tragico, come quelli, a loro modo epici, a cui Del Giudice ci aveva abituati nel primo romanzo, La Pasqua bassa, quasi volesse mostrarci il disfacimento di una società attraverso l’avvilimento dei sentimenti. Il dolore muto che nel primo romanzo campeggia con movenze da teatro greco, qui diventa il rimpianto di un uomo senza qualità per ciò che non è stato. Ha perso la stima dei figli, l’amore della moglie, quello dell’amante, la posizione sociale, il prestigio e il potere, ma continua inesorabile come una macchina rotta a contare: i passi, le fughe nel pavimento, i doni, i favori, gli anni, i soldi. Nella sua mente, ormai incline alla resa, ogni perdita è registrata scrupolosamente come la voce di una partita doppia. Non ha un vero rapporto con gli altri, si è illuso di averlo, così come adesso si illude di averlo perso, e quando la sua situazione giudiziaria si risolve, quando viene riabilitato, ecco il tracollo. Perché la minaccia di un processo, lo scandalo, era pur sempre una spinta a vivere, così come a suo tempo l’evasione erotica e l’accumulo di denaro. Ma l’antico potere che pure ha perso continua a proteggerlo come un’ombra, malgrado lui, verrebbe da dire.
A questo punto si ritrova faccia a faccia con la sua coscienza (sa di non essere innocente) e con il vuoto attorno. Finalmente uscirà di casa, ma perché? Non lo sveliamo, e neppure Del Giudice lo svela, anche se lo lascia intuire. Il romanzo, o piuttosto il lungo racconto, ha un andamento veloce, sorretto da un italiano secco e nervoso, che conferisce al monologo accenti quasi biblici (il libro di Giobbe), tradotti nelle miserie quotidiane di una società alla deriva e di un’anima perduta. Quello che colpisce, rispetto ad altri romanzi simili, è la sua assoluta mancanza di esemplarità, la rinuncia istintiva dell’autore a conferire un valore simbolico qualunque a ciò di cui parla. Nessuno dei personaggi del romanzo, a partire da Nisticò, per arrivare alla moglie Anna, all’amante Rachele, ai figli, al prete, al fratello, alle varie comparse, assume un’aura di positività, rischia di diventare un emblema del bene o del male, che nessuno sembra davvero volere o meritare. Il che da una parte è coerente con il carattere dell’ex direttore generale, che filtra ogni parola e intenzione attraverso una conoscenza arida degli uomini, dall’altra sembra volere convincere il lettore che al fondo di tutto, e oltre l’insignificante figura di Nisticò, c’è solo l’interesse e niente altro. In questa palude morale un solo sentimento svetta, non per consolare, certo, degno però di rilievo, e che ricongiunge idealmente il passato contadino descritto nel primo romanzo con la società borghese di questo secondo. Il potente richiamo che esercita sui protagonisti (nel primo i genitori, in questo Nisticò) il legame con i figli. E poco importa che questi figli siano morti, come nella Pasqua bassa, o lontani e distratti, forse indifferenti, come nella presente narrazione. La sfiducia e la nausea di Nisticò nei confronti del lavoro, della famiglia, del sesso, della religione, di ogni rapporto, trova un unico argine, doloroso ma autentico, in una paternità, magari tradita, mai dimenticata…
Un romanzo che si legge tutto di un fiato.