Massimo Fini. La modernità di un antimoderno, che ebbe il coraggio di difendere Nerone

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 18 Ottobre 2016 - 06:56 OLTRE 6 MESI FA
Massimo Fini. La modernità di un antimoderno, sfida esistenziale prima che culturale

Massimo Fini. La modernità di un antimoderno, sfida esistenziale prima che culturale

Tutto il pensiero di un ribelle contemporaneo in sei saggi, usciti tra il 1985 ed il 2006, raccolti sotto un titolo eloquente e suggestivo: “La modernità di un antimoderno” (Marsilio). L’autore è Massimo Fini. L’opera viene presentata con queste parole dal filosofo Salvatore Veca che l’introduce soffermandosi sul primo dei volumi, “La ragione aveva Torto?”, sasso potente in uno stagno maleodorante trent’anni fa: “E’ l’esito di un implacabile e tenace corpo a corpo con le credenze associate al modello di sviluppo emerso dalla Rivoluzione industriale, che trovano la loro radice nel retaggio dell’Illuminismo e nei suoi sviluppi nel positivismo, nel liberalismo e nel marxismo. In parole povere, l’esercizio del sospetto e del dubbio nei confronti degli effetti della Modernità sui nostri modi di vivere e convivere induce Fini ad una condanna senz’appello di buona parte delle nostre credenze di contemporanei a proposito di democrazia e mercato, di scienza e tecnologia, di progresso civile e di sviluppo di opportunità o chances di vita”.

Il “corpo a corpo”, Fini non l’ha mai concluso. Lo ricordo ribelle allora, quando ebbi modo di presentare quel suo libro dirompente in mezza Italia, tanto più scandaloso in quanto scritto da un intellettuale “proveniente da sinistra”, lo vedo, lo seguo ribelle oggi. Nemico dichiarato, senza sotterfugi né ammiccamenti di comodo, del “pensiero unico” ispirato dal mercatismo e delle tendenze mondialiste, rivendica la sua autonoma di giudizio nel nome di una sensibilità valoriale che i testi presentati in questa ampia silloge spiegano adeguatamente e non ammettono che li si possa liquidare come la produzione di un occasionale “bastian contrario”, tanto la loro profondità filosofica è verificabile da lasciare stupiti considerando che non di un accademico si tratta, ma di un giornalista di professione. Del resto bisogna pur vivere. E se il giornalismo incontra il pensiero non si vede per quale motivo non debbano entrambi convivere sempre che si abbiano i mezzi e le capacità culturali di farli interagire nella redazione di articoli o di saggi.

Fini lo ha dimostrato ampiamente. Spingendosi su impervie vie dove ha incontrato Nietzsche dedicandoli una splendida biografia, forse la più bella scritta da un italiano, Nerone con i suoi duemila anni di calunnie sulle spalle, e perfino il Mullah Omar emblema tragico di una più grande tragedia, quella afghana. Tutti sotto il segno, se posso esprimermi così, di reportage intellettuali nei quali non si sa se più notevole è la forza del linguaggio, la passione coinvolgente oppure lo scandaglio delle fonti da cui emergono biografie tanto dissimili quanto inattaccabili.

Lo stesso può dirsi per “La modernità di un antimoderno”, che potrebbe confermare il giudizio che in occasione dell’uscita della sua autobiografia, qualche anno fa (“Una vita. Un libro per tutti e per nessuno”, Marsilio), venne quasi unanimemente formulato. E cioè che se Fini non fosse stato quello che è stato, un ribelle, sarebbe diventato il più grande giornalista italiano della sua generazione. Non ci convinse e non ci convince  l’apodittica asserzione per il semplice fatto che non vi è prova del contrario che la sostenga. Si tratta di un punto di vista e nulla di più. Come il nostro che è diametralmente opposto. E cioè che Fini è stato ed è (almeno fino a quando i suoi occhi malandati gli permetteranno di scrivere) un eccellente giornalista la cui dote migliore è, ancora oggi, a più di settant’anni, il coraggio intellettuale che si sposa con un innato anticonformismo. Da questa miscela “esplosiva” per alcuni è venuto fuori lo scrittore, il commentatore, l’analista,  che in cinquant’anni di professione abbiamo conosciuto. Perciò i suoi libri hanno suscitato grandi clamori, pervicaci antipatie, ma anche tanta ammirazione perfino  in chi non ne ha condiviso la visione del mondo e della vita più che il suo singolare modo di praticare il giornalismo, vale a dire senza ossequi di sorta nei riguardi di nessuno.

Fini si è tenuto a debita distanza dai salotti della finanza e dai lupanari della politica, in cui si decidono le “brillanti carriere” e si attribuiscono  immeritate direzioni giornalistiche. Ha evitato di compiacere i potenti alla stessa stregua di come ha disprezzato i luoghi comuni della storia e del pensiero. Ha scelto di essere libero rimettendoci il più delle volte le penne, ma non la penna o la portatile. Ha preferito recarsi sul campo per raccontare le convulsioni contemporanee evitando facili rimasticature da riproporre nei talk show televisivi dove non è mai stato amato. Si è ingegnato nel descrivere le nefandezze del culto della Ragione ed i profili impresentabili di uomini come Catilina e Nerone, guarda caso poi diventati presentabilissimi da parte di storici accademici. Si è innamorato di Nietzsche, ma senza indulgenze ne ha tratteggiato il profilo umano solitamente ignorato. È stato dalla parte dei “vinti”, incurante dei guai che ne sarebbero derivati. E quando alcuni grandi giornali lo hanno blandito, corteggiato, cercato di comprarlo ha semplicemente risposto di non essere in vendita se oltre al suo talento avrebbero voluto appropriarsi  anche della sua anima.

E poi gli amori e le amicizie, il gioco e la dissipazione, le passioni, i tradimenti, le illusioni e la tenerezza verso tutti i perdenti (tra i quali annovera ovviamente anche se stesso) sono le tessere di una personalità complessa che, come diceva un grande poeta, può confessare di aver vissuto. Fini non ha attraversato una vita, ma molte vite in una e tanto basta a fargli al rispondere alla domanda cruciale che si pone al  punto in cui è arrivato nell’unico modo possibile: la sua esistenza ha avuto il senso che egli è riuscito a dargli. Un “senso” che questi sei saggi, unitamente ai molti altri libri che sono il frutto di uno studio costante e disperato alla ricerca non di una verità metafisica, ma più modestamente della verità umana sempre sul punto di essere trascinata nel gorgo della menzogna articolata dalle oligarchie economiche, finanziarie e politiche, oltre che culturali (sagrestane queste di quelle) .

Antimoderno? Per forza. Oltre al saggio sulla Ragione, lo ha esposto con vigore ed in modo convincente nell’ “Elogio della guerra”, una costante della storia che non la si può abrogare con le belle parole, infatti il mondo non è mai stato in pace; nel “Denaro. ‘Sterco del demonio’ “, una cultura che ha spazzato vie anime e valori piegando le esistenze dei popoli, travolgendo i loro diritti (sotto la più comprensibile, ma equivoca difesa dei diritti umani)  assoggettandoli alla sua dittatura;  ne “Il vizio oscuro dell’Occidente”, vero e proprio manifesto dell’Antimodernità, con il quale l’accusa alla paranoia dell’omologazione è sotto ogni profilo assolutamente coerente con una concezione che nega l’assunto illuminista secondo il quale sempre la Ragione regge le file dell’umanità ed i popoli dovrebbero essere indifferenti alle loro radici per aderire ad un modello unico: bei risultati le “guerre umanitarie” e i tentativi di “esportazione della democrazia”; in “Sudditi. Manifesto contro la Democrazia”, ritroviamo  un condensato di argomentazioni contro l’individualismo supportato da studi antichi (Tocqueville) e recenti (i comunitaristi), a dimostrazione di come nel tempo della massima espressione della libertà astratta, le libertà concrete si siano di fatto ristrette; ed infine “Il Ribelle dalla A alla Z”, l’ultimo saggio di Fini prima che si dedicasse ad altro, uscito dieci anni fa, che è una specie di “breviario” dell’antimodernità declinato per voci, come un vero e proprio dizionario.

Si possono non condividere, com’è ovvio che sia, molte delle posizioni di Fini. Ma è impossibile negare che esse abbiano un fondamento che ci differenzia nel giudizio sulla nostra epoca e sulle sue origini. La legittimità del dissenso è pienamente rivendicata, come la libertà di pensare ed agire secondo caratteristiche diverse. Aderendo, dunque, a sensibilità che seppure minoritarie non vanno in alcun modo demonizzate.

 

MASSIMO FINI, La modernità di un antimoderno. Tutto il pensiero di un ribelle, Marsilio, pp. 1070, € 24.