Legge fascista sulla responsabilità del direttore decade in Corte d’Appello a Milano: con internet non vale più

Legge fascista sulla responsabilità del direttore decade in Corte d'Appello a Milano, 80 anni troppo tardi: con internet non vale più.

di Sergio Carli
Pubblicato il 25 Dicembre 2022 - 08:48| Aggiornato il 26 Dicembre 2022 OLTRE 6 MESI FA
Legge fascista sulla responsabilità del direttore decade in Corte d'Appello a Milano: con internet non vale più

Legge fascista sulla responsabilità del direttore decade in Corte d’Appello a Milano: con internet non vale più

Una legge delle più crudeli, aberranti e liberticide usate da Mussolini per imbavagliare i giornali, l’art. 57 del codice penale, ha subito un severo ridimensionamento ad opera della Corte d’Appello di Milano.

Il collegio era presieduto da Elsa Gazzaniga  e composto da Rosaria D’Addea e Luigi Gargiulo. La sentenza è importante perché sancisce la non applicabilità del reato di mancato controllo dei contenuti pubblicati da un giornale online al direttore responsabile della testata.

E importante anche perché sembra poter mettere fine all’altalena della giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di applicabilità di questa norma del codice alla informazione on line.

In base alla norma, che a onor del vero risale all’Italia umbertina, il direttore del giornale o della rivista stampati u carta risponde di quel che è pubblicato anche se il giorno della puublicazione era a letto con la febbre.

La sentenza milanese ha sancito in questi giorni “l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non sussiste”, confermando

 “la declaratoria di non luogo a procedere, non esistendo nel panorama legislativo ad oggi a disposizione una fattispecie incriminatrice che sanzioni la condotta per omesso controllo colposo del direttore di un periodico online”.

“L’evoluzione giurisprudenziale del concetto di “stampa” e di informazione professionale [non sono] di per sé sufficienti, adeguate e opportune a prevedere l’estensione della punibilità anche al responsabile del quotidiano telematico”.

Una legge superata dalla tecnologia

La Corte milanese osserva che “la condotta del direttore responsabile, ai sensi dell’art. 57 C.p., deve essere colposa – e non dolosa, altrimenti si tratterebbe di un’ipotesi di concorso nel reato -. L’inciso “a titolo di colpa”, peraltro, è stato aggiunto solo successivamente, con la L. 4 marzo 1953, n. 127, in ottemperanza al principio di colpevolezza, a modifica di una disposizione che, nella sua formulazione originale, istituiva un’ipotesi di responsabilità oggettiva”.

Ma “per le diverse modalità di trasmissione che un quotidiano telematico ha, rispetto a quelle di un periodico cartaceo – pubblicato al massimo una volta al giorno e non con aggiornamenti costanti come quello di un articolo pubblicato su internet – si comprende come possa risultare difficilmente esigibile nei confronti di un singolo direttore assumersi la consapevole responsabilità di ogni pubblicazione e dei relativi aggiornamenti, portando inevitabilmente la responsabilità colposa nel pericoloso alveo della responsabilità oggettiva.

In questo senso, la giurisprudenza, nell’impropria estensione di responsabilità al direttore del quotidiano online per omesso controllo ai sensi dell’art. 57 c.p., non ha evidentemente tenuto conto, delle differenze della diffusione della notizia via web, soprattutto a livello temporale e quantitativo, rispetto a quella trasmessa su un periodico cartaceo”.

Sul banco degli imputati erano finiti i direttori di quattro testate online: Alessandro Sallusti per il Giornale.it, Marco Benedetto per Blitzquotidiano.it,  Alessandro Barbano per il Mattino.it e Maurizio Belpietro per Libero.it. Li difendevano gli avvocati Antonio Buttazzo, Marco Milani, Marinella De Nigris e Luigi Ferrante.

L’art. 57 del codice penale (Reati commessi col mezzo della stampa periodica), ipotesi di reato quasi esclusivamente italiana (una volta esisteva anche in Francia, in Italia c’era il capro espiatorio “gerente responsabile”) prevede:

“Salva la responsabilità dell’autore della  pubblicazione  e  fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore  responsabile, il quale omette di esercitare sul  contenuto  del  periodico  da  lui diretto il controllo necessario  ad  impedire  che  col  mezzo  della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa,  se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo”.

Precedenti famosi di applicazione della legge

Ci sono stati casi clamorosi di applicazione della norma nel corso degli anni, come la denunci sporta dal generale De Lorenzo contro Eugenio Scalfari direttore dell’Espresso e Lino Jannuzzi autore dell’inchiesta sullo scandalo Sifar.

L’art. 57 era una norma punitiva in origine, è una norma iniqua al giorno d’oggi con lo sviluppo che ha avuto l’informazione scritta. Se poteva avere una applicabilità quando i giornali arrivavano a 8-12 pagine, non aveva senso alcuno con lo sviluppo dei giornali dato dalla crescita delle edizioni locali e delle foliazioni fino 60 pagine di testo.

Già alcuni decenni fa il mitico avvocato Giuseppe Sotgiu (quello che fece assolvere Claire Bebawi) ottenne l’assoluzione di Mario Lenzi, grandissimo direttore del Tirreno di Livorno, mostrando ai giudici le cento e più pagine che il direttore di quel giornale avrebbe dovuto leggere ogni giorno, fra edizione regionale e molteplici edizioni locali.

La legge non risulta mai applicata a telegiornali e radiogiornali. Ci sono stati, negli ultimi anni, alcuni tentativi di estensione a Tv, radio e online ma i vari disegni di legge finirono sul binario morto.

Quei progetti di legge erano una vergogna per l’Italia, come ancora è una vergogna che, come ha fatto anche Iachetti, chi si ritiene diffamato possa contemporaneamente avviare un processo penale e una causa civile di risarcimento danno.

Un distillato d’odio grillino

I vari tentativi di bavaglio erano un distillato di odio dei politici verso i giornali e i giornalisti. Grillini inclusi: d’altra parte le vaneggianti promesse di Beppe Grillo di abolire l’ordine dei giornalisti (geniale invenzione mussoliniana che l’Italia del compromesso storico si pregiò di rinnovare e ora è trasformato in una macchinetta repressiva) si sono rivelati parolacce al vento.

In un Paese o Nazione dove quasi 80 anni dopo la fine della guerra esiste ancora l’associazione dei partigiani, nessuno si è mai premurato di smantellare l’apparato repressivo fascista travasato anzi nella legge del 1947 e nella rinascita dell’Albo mussoliniano sub specie Ordinis.

In fondo a democristiani e comunisti quell’apparato poteva sempre venir comodo. Non si deve ignorare che a mandare in galera il grandissimo Giovannino Guareschi furono due pilastri dell’antifascismo, Luigi Einaudi e Alcide De  Gasperi.

Come detto sopra, i nuovi paladini della democrazia volevano anzi rincarare la dose. Grazie solo a alcuni esponenti del Pd, Luigi Zanda, Rosanna Filippin e Walter Verini, e l’appoggio decisivo della Federazione della Stampa, il tentativo non riuscì.

Il sindacato dei giornalisti è sempre stato agnostico rispetto alle leggi fasciste. Invitato a una revisione di quelle leggi, mezzo secolo dopo la caduta del Regime, un segretario della Fnsi, comunista, argomentò il rifiuto con la tutela dei redattori, abbandonati a se stessi in caso di revisione dell’art.57.

Ci volevano tre magistrati milanesi, Gazzaniga , D’Addea e Gargiulo, per fare quello che andava fatto 80 anni fa.