Migliorano i bilanci dei giornali, ai dipendenti il conto…

di Marco Benedetto
Pubblicato il 14 Settembre 2015 - 07:33| Aggiornato il 9 Dicembre 2020 OLTRE 6 MESI FA
Migliorano i bilanci dei giornali, ai dipendenti il conto..

Una edicola di giornali degli anni ’50. Si vendevano più copie, ma erano sempre in crisi

ROMA –  Li davano per morti, i giornali. Invece stanno in piedi, un po’ scalcagnati e molto ridimensionati, ma vivi. I principali gruppi editoriali e i quotidiani in Italia sembrano sulla via del risanamento. Inesorabilmente anche se lentamente, grazie al taglio dei costi affrontato senza pietà dalle aziende, che hanno fatto un ciclopico lavoro di risanamento, rincorrendo la crisi dei ricavi con il taglio dei costi, ma anche e soprattutto con il contributo dei dipendenti e degli istituti di previdenza, giornalisti in testa.

Abbiamo guardato i conti di società editrici che pubblicano più di venti giornali quotidiani, dai più grossi ai meno diffusi e il campione è abbastanza significativo. Lo abbiamo fatto in primavera, guardando i bilanci del 2014, lo abbiamo fatto a settembre, dopo i bilanci del primo semestre 2015.

La lettura dei conti del primo semestre 2015, magari affrettata, è stata fatta sui bilanci al 30 giugno 2015 dei più grandi gruppi editoriali italiani, Rcs (Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport), Gruppo Espresso (Repubblica e quotidiani locali della Finegil) e Caltagirone Messaggero di Roma, Mattino di Napoli, Gazzettino di Venezia, Corriere Adriatico). Di un altro grande quotidiano, il Sole 24 Ore, forse per inadeguatezza del ricercatore, i conti on line sono inaccessibili, persi in un loop di rinvii. I conti della Stampa sono annegati nel bilancio planetario della Fca.

Lo stop è al 30 giugno 2015, 2014 e 2010, per registrare i cambiamenti da un anno all’altro negli ultimi due primi semestri per constatare la solidità acquisita; e anche sull’arco di un quinquennio: il 2010 è significativo perché l’anno dopo, il 2011, sull’Italia si sarebbe abbattuto il ciclone Mario Monti, quello che i giornali battezzarono Supermario e caro gli costò.

I bilanci semestrali non offrono tutti i dettagli dei bilanci annuali ma indicano una tendenza che, salvo cataclismi o impennate dei ricavi, il secondo semestre dovrebbe confermare e anche migliorare, con la concentrazione di ricavi nell’ultimo quadrimestre e la tendenza positiva dei mercati internazionali che trascina anche la povera e inconsapevole Italia.

Partiremo con la nostra analisi proprio dai giornali. Per non produrre tabelloni di difficile gestione con word press e anche di difficile lettura, abbiamo fatto 3 tabelle: una per Corriere, Gazzetta e annessi e connessi; una con Repubblica e i quotidiani locali; una per i consolidati dei tre gruppi Rcs, Espresso, Caltagirone. Le cifre sono in milioni di euro.

I conti del Corriere della Sera sono in un unico contenitore con quelli della Gazzetta dello Sport e delle riviste che ancora la Rizzoli edita. Il Settore Media Italia del Gruppo RCS edita il Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport; magazine settimanali e mensili, tra cui Amica, Living, Style Magazine, Dove, Oggi, Io Donna, Sportweek, Sette e Abitare; comprende attività televisive e di sviluppo digitale. Un bel calderone. Per capirci un po’ meglio abbiamo scorporato dai ricavi editoriali quelli attribuiti in nota agli opzionali.

Se ne deduce che, salvo smentita, i ricavi da vendita del Corriere della Sera (ma è difficile dirlo con precisione perché sono mescolati con la Gazzetta dello Sport e delle varie riviste) hanno un trend peggiore di Repubblica (vedi sotto) mentre alla Rcs sono più bravi che a Repubblica con gli opzionali. Il confronto dei ricavi diffusonali fra 2015 e 2010 non deve ingannare. Alle testate del 2010 sono state aggiunte le riviste, prima inquadrate in altra divisione, ragion per cui il confronto non è del tutto omogeneo.

 Editore Rcs Media Italia
 Anno 2015 2014 2010
 Vendita copie 101 mln  105  107
 Collaterali  44  33  44
 Totale da edicola  145  138  151
 Pubblicità 103 111 153
 Altri ricavi 11 11  20
 Totale ricavi  259  260  325
 Utile operativo lordo *  14  12  56
 (* Mol o Ebitda: ante ammortamenti e tasse)

 

Per il Gruppo editoriale l’Espresso, ai ricavi di Repubblica, e di conseguenza al risultato, abbiamo aggiunto quelli degli opzionali, nell’assunto che il contributo dell’Espresso alla loro vendita sia neutro. Il confronto dei soli dati di vendita copie mostra come i quotidiani locali abbiano retto meglio il confronto con la crisi delle letture: i ricavi di Repubblica da copie nel 2015 sono stati il 77 per cento del 201o, quelli dei quotidiani locali l’83 per cento. La differenza si spiega innanzi tutto con la minore concorrenza che i giornali locali subiscono sui mercati locali e anche con la minore auto concorrenza su internet. Poi l’analisi si fa troppo complessa.

Editore Repubblica (con opzionali) Finegil con opzionali
 Anno  2015  2014  2010  2015  2014  2010
 Vendita copie  48 mln  49  62  50  54  60
 Collaterali  11  16  38
 Totale da edicola  59  65  100  50  54  60
 Pubblicità  53  57  97  29  31  49
 Totale ricavi    112  122  197  79  86  110
 Utile operativo lordo *  5  3,4  26  14  12  24
(* Mol o Ebitda: ante
ammortamenti e tasse)

 

Ecco qui invece i dati consolidati dei gruppi, la sintesi di tutti i loro conti. Ci sono Rcs, Espresso e Caltagirone editore, che opera solo nei quotidiani e quindi il suo conto consolidato non richiede  particolari sezionamenti. Pertanto lo presentiamo assieme al consolidato di Rcs e Gruppo Espresso.

Editore Rcs Media Gruppo  Espresso Calta girone
 Anno  2015  2014  2010  2015  2014  2010  2015  2014  2010
 Vendita copie  287   288  566  109  115  133  32  35  39
 Altri ricavi e collaterali  69  72  148  26  33  48  3  3  5
 Pubblicità  236  251  382  178  184   265   45  45  80
 Totale ricavi  592  611  1096  313  332  446  80  83  124
 Costo del lavoro  165  186  231  114  119  147  38  40  50
 Altri costi  430  454  792  168  182   224  43  46   72
 Totale costi    595  640  1023  282  301  371  81  86   112
Utile operativo lordo *  (3) (29) 73 31 31 75  (0,067) (3) 12
(* Mol o Ebitda: ante
ammortamenti e tasse)

 

 

Analizzare i bilanci dei gruppi editoriali per estrarne una cartella clinica dei giornali non è facile, perché i due più grossi, Rcs e Gruppo Espresso, sono Media Companies con attività diverse dai quotidiani. La lettura più difficile è quella della Rcs, che ha organizzato i conti in riferimento a grandi settori, dove tutto un po’ si confonde e dove il confronto col passato è ostacolato dai diversi criteri di organizzazione interna.

Il Gruppo Espresso è invece trasparente e ricco di dettagli. Mentre Rcs mette assieme in un unico calderone i ricavi dei vendita dei quotidiani e quelli delle riviste e dei prodotti opzionali (i dettagli sono in nota in corpo 6), in modo che è arduo capire nel dettaglio i trend diffusionali, Repubblica scorpora dal suo conto economico gli stessi opzionali, come fossero una azienda a parte, peggiorando un po’ il risultato, ma di poco, perché sembra che Repubblica abbia perso un po’ lo smalto rispetto al Corriere della Sera. Stando a quel che un povero cronista riesce a leggere, Repubblica nel 2015 ha fatturato 11 milioni di collaterali per un utile di 0,3 mentre Corriere e Gazzetta assieme hanno portato a casa 44 milioni, utile non divulgato.

Dalla tabella qui sopra balza evidente il grande sforzo fatto dalle società editrici per sopravvivere. Uno per l’altro, i tre gruppi di cui si riferisce hanno perso fra il 30 e il 40 per cento del fatturato, in cifra assoluta mezzo miliardo di ricavi in un semestre nel giro di 5 anni. Hanno perso 160 milioni di margine; il resto, quasi 350 milioni, lo hanno recuperato sui costi, con tagli e dismissioni. Ora sono come molle, pronte a ripartire con la ripresa trainata dal resto del mondo. Se gli editori saranno capaci di sfruttarla.

Viene da fare queste osservazioni:

1. Rcs ha subito in questi anni il doppio effetto della crisi e dell’acquisto di una casa editrice in Spagna pagata più del dovuto alla vigilia della recessione che ha affossato i conti in Spagna come in Italia;

2. Chi ha guidato la Rcs ha abilmente sfruttato la crisi per fare pulizia di pesi morti accumulati in un secolo, di cui le aziende che poi sono confluite nella Rcs non erano mai state in grado di liberarsi. Per pesi morti si intendono testate o società inutili e in perdita il cui effetto deleterio era coperto, nei decenni passati, dalla sorgente miracolosa del Corriere della Sera. Il calo di oltre il 40 per cento dei costi della Rcs, a fronte di meno del 25 % del Gruppo Espresso e del 28% di Caltagirone, fra il 2010 e il 2015, deriva proprio da quello. Non è che i dirigenti della Rcs sono stati più bravi a pensionare gente o rinegoziare forniture, è che avevano più zavorra di tutti da eliminare. Per effetto di questo, il gruppo Rcs è quasi al pareggio operativo, 3 milioni di perdita nel semestre, a fronte di 29 un anno fa. Ha ragione Repubblica quando esulta che Rcs ha perso 95 milioni ma il titolista non ha tenuto conto che quello è un retaggio del passato, che il miglioramento della gestione procede rapidamente.

3. I quotidiani di Rcs, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport, non sono mai andati in rosso, solo che i loro conti non erano in grado, come speravano gli azionisti che hanno imposto l’acquisto spagnolo, di assorbirne l’ammortamento. Ma la perdita è, in un certo senso e detta un po’ rozzamente, un fatto virtuale, non un disavanzo fra costi e ricavi, perché l’uscita di cassa c’era stata al momento dell’acquisto in Spagna. Nel primo semestre 2015 il rapporto utile lordo / fatturato del conglomerato Rcs Media Italia è stato del 5,4%, qualcosa per cui i dirigenti della maggior parte delle imprese italiane si leccherebbero i baffi; molto meno del 17% del 2010, ma sempre un punto sopra Repubblica (4,4%) che peraltro già nel 2010 era molto sotto il Corriere (13% contro 17%). Il confronto non è omogeneo, ma dà un’idea, probabilmente per difetto: è probabile che la redditività del Corriere della Sera sia appesantita, non esaltata, dalle riviste, che nel mercato editoriale degli ultimi anni sono state il ventre molle.

4. Se non si rimettono sulla strada delle iniziative sballate, gli azionisti vedranno bei numeri.

5. Il Gruppo Espresso ha due punti di forza: nei quotidiani locali che alla fine della buriana hanno conservato una redditività (utile lordo su fatturato) di quasi il 18% (era del 22% ne 2010); e nella radio che, in barba alla crisi, presenta un margine del 29%. Era del 42% nel 2010, ma chi segue un po’ le notizie sul mercato pubblicitario e si è fatto una idea della crisi di questi anni e di come sono stati colpiti gli altri editori di radio non può che levarsi tanto di cappello e alzarsi in piedi ogni volta che sente nominare Linus, unico direttore su piazza che unisce capacità creativa e consapevolezza economica. Repubblica, a vederla da fuori, non brilla.

Il lavoro delle aziende è stato titanico: nessun Paese al mondo ha avuto per poco più di un anno un primo ministro come Mario Monti che deliberatamente ha aggravato la crisi per imprimere negli italiani un nuovo modo di vivere. La crisi è stata feroce e l’inadeguatezza del successivo Governo di Enrico Letta ha se possibile aggravato il disastro.

Alla crisi economica si è aggiunta quella del settore. Rinuncio a chiedendomi se i giornali rispondano al mercato o corrispondano a una idea di servizio pubblico che non quadra con quello che il pubblico si aspetta. C’è una certa divaricazione fra quello che credi di dovere riferire e quello che davvero interessa. Ma non mi sento in grado di andare oltre. Basta guardare i trend dei dati di vendita e di lettura deii quotidiani.

Una cosa va detta, che il prezzo, da un euro e 20 a un euro e mezzo, non favorisce certo le vendite. Metà pagine, grafica più sobria con più contenuti per pagina, prezzo coerente forse potrebbero aiutare a contenere l’emorragia.

I giornali locali hanno trend differenti. Può dipendere da come rispondono ai sentimenti del territorio (è dura fare un giornale filo Pd in una provincia dove si vota in maggioranza Lega) o dalla scelta sbagliata del direttore di prestigio da parte di editori più provinciali che di provincia.

Editori e direttori si vantano delle vendite delle copie digitali, cioè del giornale di carta trasferito pari pari on line, da non confondere con le letture dei siti che sono gratuiti. Qualcosa non torna perché a compensare il calo delle copie vendute in edicola dovrebbero supplire l’aumento dei prezzi e le copie digitali, ma i ricavi di queste, per quel che è possibile discernere in rendiconti a volte un po’ nebulosi sul punto, sono in calo, segno che il giornale trasferito pari pari on line non piace e per tante ragioni, dalla difficile lettura all’ancor più difficile sfoglio oppure semplicemente viene dato via a prezzi stracciati tanto per far salire il numero delle copie a esclusiva gloria di un direttore.

Una cosa colpisce per tutti: che la magia di internet è finita, l’unica cosa che funziona per gli editori è lo sfruttamento delle loro testate sul web. I ricavi sono stabili da anni, quanto siano frutto di “bundle” commerciali lo sapranno davvero solo i capi delle reti di vendita della pubblicità, il cui lavoro è certo devastato dalle politiche commerciali della Rai, a causa delle quali l’Italia è l’unico Paese al mondo dove la pubblicità su internet regredisce, a parte Google che però, checché ne pensino gli editori, compete poco sul terreno del “display”.

A guardare i bilanci in prospettiva quasi storica, ci si rende conto che ben difficilmente una azienda strutturata per fare giornali e che lo ha fatto con successo per decenni si può duplicare in una cosa completamente diversa per partenogenesi. Meno che mai in Italia, dove manca innanzi tutto il mercato. Ma anche il grande Rupert Murdoch ha buttato centinaia di milioni comprando una azienda internet che, a contatto con la sua struttura, si è incartata. Vero anche il contrario: non pare che il grande Bezos di Amazon sia stato capace finora di fare del Washington Post un nuovo Facebok. Questo qualcuno dovrebbe spiegare a Antonio Campo Dall’Orto, che ha letto sui giornali di Netflix e Buzzfeed e sogna di fare della Rai una nuova start up.

I giornalisti, senza i quali, per definizione i giornali non si fanno, hanno pagato il prezzo più alto. Gli editori ci hanno rimesso poco e comunque tutti quelli che hanno interessi nei giornali li hanno messi a profitto, in un modo o nell’altro.

I giornalisti escono male dalla crisi, ridimensionati nella virulenza sindacale e con cupe prospettive per la loro vecchiaia. Una volta andavano in pensione a 55 anni con poco meno dell’ultimo stipendio, oggi gli anni sono 58 e destinati a salire. Il loro istituto di previdenza, Inpgi, ha varato una riforma indispensabile quanto in alcune parti preda di inutile demagogia e ancora non basta.

Nonostante l’impressione che gli editori siano un po’ sfiduciati (vero sentiment o tattica negoziale?) possiamo dire che il peggio è passato anche se le aziende, per essere sicure che non ci siano ricadute, insistono con i tagli. Ormai sembrano averci preso gusto e le controparti, giornalisti e personale operaio e impiegatizio, una volta tanto arroganti e agguerriti, sembrano ormai appecoronati.

In questo quadro, pare evidente è che i giornalisti non vorranno subire la depauperazione del loro istituto di previdenza pensionistica, Inpgi, che da un lato sembra messo tanto male da tagliare le pensioni già erogate violando principi di diritto, Costituzione, leggi e sentenze; dall’altro si fa carico di oneri che competono invece agli editori.

La situazione dell’Inpgi non è buona perché aumenta il numero dei pensionati, mentre diminuisce il numero degli occupati. Attraverso l’utilizzo della legge 416/1981, che consente la possibilità di accedere al prepensionamento a 58 anni di età, tutti i giornalisti con retribuzioni elevate oggi sono in pensione e i nuovi assunti hanno retribuzioni basse.
La media pensionistica è più alta della media retributiva. In queste condizioni nessun ente previdenziale può andare avanti. La responsabilità appare chiaramente degli editori, che hanno utilizzato al massimo la legge 416, invocando la crisi del settore. Il loro obiettivo è quello, che la legislazione in atto consente (anche quella renziana e non solo quella di Monti) di ridurre il numero dei giornalisti dipendenti e di allargare quello dei giornalisti autonomi.
Per gli editori, la redazione ideale è composta da pochissimi redattori e una platea infinita di collaboratori esterni. Se questo obiettivo dovesse realizzarsi, l’Inpgi non sarebbe più in grado di erogare alcuna prestazione. Finora il sindacato, la Fnsi guidata da Franco Siddi è riuscita a salvare il contratto per un altro triennio, ma il contratto scade a marzo del 2016 e gli editori, attraverso la Fieg, sono più agguerriti che mai, vogliono la destrutturazione del contratto: cancellare l’articolo 2, ridurre il numero dei giorni di ferie, eliminare i superfestivi, ridurre ulteriormente gli aumenti periodici, ridurre i compensi per straordinario e festività ecc. Continuano a insistere che il costo del lavoro giornalistico è troppo elevato rispetto ai ricavi.
A Raffaele Lorusso, ora capo della Fnsi, tocca una sfida titanica. Lorusso sa bene che non è il costo del lavoro giornalistico a crescere ma sono i ricavi a scendere e questo è sotto gli occhi di tutti.
Davanti a sè, però, Lorusso trova una categoria di editori che nutrono poca fiducia nella possibilità di aumentare i ricavi. Ho scritto sopra che le aziende editoriali “ora sono come molle, pronte a ripartire con la ripresa trainata dal resto del mondo” ma la molla è nelle mani degli editori e gli editori italiani sembrano sfiduciati e incapaci di progettare il futuro.

Eppure, le condizioni per una ripresa ci sono tutte, se si leggono le cifre riportate sopra. Ci sono giornali con una redditività (quanto viene di profitto per ogni unità di fatturato) che tante aziende di altri settori in Italia e del settore editoriale in giro per il mondo si sognano. I quotidiani locali dell’Espresso hanno un rapporto utile lordo su fatturato che sfiora il 18%, Repubblica del 4,4%, il Corriere non si può dire, ma si può scommettere che fa meglio del 5,4% del calderone Rcs Media Italia. Persino la vituperata filiale spagnola di Rcs, che tante amarezze ha provocato, sfiora il 5 per cento di redditività e non potrà che andare meglio, sulla spinta di una Spagna che cresce più dell’Italia.

Non appare giusto che tocchi ai giornalisti pagare gli errori di acquisizioni strapagate.

Solo a partire dal 2015 gli editori verseranno contributi in percentuale pari alle altre categorie verso l’Inps. Dovrebbero essere ancor più alti, per compensare gli stipendi dei nuovi giornalisti, più bassi di una volta. Dovrebbero anche essere integrati dai contributi su tutto il lavoro giornalistico svolto in Italia anche presso aziende non editoriali e presso i siti internet di ogni tipo, a prescindere dalla ambiguità offerta dalla ampiezza della legge che inquadra i siti non secondo parametri oggettivi ma secondo il modo in cui il sito si vede. Blog, di informazione o non di informazione lo decido io.