Francesco Guccini: “Oggi faccio fatico e camminare e non ci vedo”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 2 Gennaio 2018 - 12:44| Aggiornato il 15 Febbraio 2018 OLTRE 6 MESI FA
francesco guccini

Francesco Guccini (foto Ansa)

ROMA – Intervistato da Repubblica, Francesco Guccini racconta il suo ritiro dalle scene e la sua nuova vita a Pavana, piccola frazione di Sambuca Pistoiese, dove il cantautore ora vive. “Oggi faccio fatico e camminare e non ci vedo” confessa Guccini.

Perché hai scelto di ritirarti a vivere qui?

«È l’ ultimo luogo della mia resistenza: un paese che è stato infanzia e sogno, durezza e forza. Mi sembrava appropriato sceglierlo come il punto di approdo di tutta una vita».

Parli di resistenza, ma in che senso?

«Bisogna resistere: alle tentazioni inutili e dispersive; al degrado; allo svuotamento. Ma non sono qui per espiare, sono qui per testimoniare che è ancora possibile scegliersi una vita a misura».

Il rapporto con il paese com’ è?

«Direi buono: nessun assillo, nessuna pretesa di eleggermi a gloria locale. Un tempo, all’inizio del Novecento, qui vivevano settemila persone, ne sono rimaste poco meno di millecinquecento. Il paese si è svuotato. Pochi giovani. Pochi sogni. Poche prospettive. Un tempo qui venivano a villeggiare. Oggi la gente si vergogna di posti così. La cosa più desolante è il fiume qui sotto. Era pieno di vita; ma oggi non ci va più nessuno. Ma lui se ne frega e continua a scorrere lento. C’è solo un airone cinerino che ogni tanto vola a pelo e poi si pianta in mezzo. Impalato nell’ acqua, come un assurdo segnale di tristezza».

Sei nato a Pavana?

«No, i miei nonni ci vivevano. Sono nato a Modena. L’estate venivamo qui a villeggiare. A Modena sono rimasto fino a vent’ anni. Nel 1960 ci trasferimmo a Bologna. Mio padre che era impiegato alle poste approfittò di un’offerta di lavoro. E portò la famiglia con sé».

Come erano i rapporti con tuo padre?

«Poca roba. Era stato in un campo di concentramento a Ravensbrück vicino ad Amburgo. Non amava parlarne. Seppi in seguito che con lui c’erano stati Giovanni Guareschi e Gian Enrico Tedeschi. Fu un uomo duro. Un montanaro. Scarno di parole e di affetti. Però mi ha sempre lasciato libero di fare quel che volevo».

Anche la vita del cantante?

«Mi ha sorpreso quando accettò senza fiatare la mia scelta. Ma non è mai venuto a sentire un mio concerto. Io non l’ho mai incoraggiato e lui ha sempre fatto finta di niente. In fondo se ne è sempre fregato del mio successo».

Anche tua madre stessa linea di comportamento?

«Meno drastica. Lei una volta venne a sentirmi cantare. Mi esibivo a Porretta Terme, a pochi chilometri da qui. Nessun commento, nessuna emozione».

Quando hai cominciato a cantare?

«Mi pare nel 1964, o giù di lì. Fu il mio primo contratto di centomila lire al mese. Ora mi viene in mente l’unico commento di mio padre: quanto durerà? Sai, era un uomo abituato a dare del voi a mia nonna. La mia musica non era il suo mondo».

Al tuo mondo come arrivasti?

«Non fu un percorso lineare. A Modena mi iscrissi a magistero, feci un solo esame e poi cominciai a lavorare come assistente in un istituto per orfani di dipendenti postali. Il collegio era a Pesaro. Non è che fossi particolarmente entusiasta. Mi licenziarono. Dopodiché divenni cronista alla Gazzetta di Modena.

Anni di precariato, addolciti dal fatto che la sera con alcuni amici, un piccolo gruppo di orchestrali, suonavamo nelle balere del parco. Poi venne il militare che ho fatto con il grado di sottotenente. Infine mi iscrissi nuovamente all’ università. Questa volta a Bologna. Mi mancava la tesi, che avevo chiesto a Ezio Raimondi. Ma non riuscii a finire. Le canzoni bussavano alla mia porta».

E tu apristi?

«Erano gli anni Sessanta, si formavano i primi gruppi musicali con affaccio nazionale. A Modena venne a suonare l’Equipe 84, sapevano che avevo scritto qualche canzone. Gli proposi Auschwitz e la presero. Contemporaneamente avevo dato ai Nomadi Noi non ci saremo. Tieni conto che non avevo una lira. Oltretutto non essendo iscritto alla Siae non potevo firmare le mie canzoni».

Finì lì la tua collaborazione?

«No, ricordo che proposi alla Equipe Dio è morto, ma rifiutarono per paura che la canzone facesse troppo casino. Avevo pronta anche Un altro giorno è andato e Maurizio Vandelli, il leader del gruppo, sentenziò che Guccini non aveva più un cazzo da dire. E questo atteggiamento fece sì che si rafforzasse la mia collaborazione con i Nomadi».

Furono loro a cantare per primi “Dio è morto”.

«La cosa divertente è che mentre la Rai censurò la canzone, Radio Vaticana la trasmise più volte, fino a farla diventare un grande successo tra i nuovi cattolici».

Dietro quella canzone c’ erano le tue fascinazioni americane.

«A che ti riferisci?».

Con ogni evidenza a “Urlo” di Allen Ginsberg.

«Sì, la Beat Generation è stata importante, ma una canzone è pur sempre una canzone: un prodotto autonomo. Ed è inutile appesantirla di significati letterari. Anche se ho un’ amica, grande esperta delle tragedie di Alfieri, che sta facendo un lavoro da critica letteraria sulle mie canzoni».

E tu come hai reagito?

«Beh, che devo dirti: mi fa piacere sapere che le mie non sono solo canzonette. La verità è che quando si parla di Guccini alla fine è per una decina di canzoni che ha scritto».

Come giudichi le tue prime?

«Tecnicamente parlando Auschwitz e Dio è morto non sono belle canzoni. Sono testi piuttosto semplici. Ne ho realizzate di più complesse».

Come è nata “La locomotiva”?

«Per delle strane combinazioni. Lessi le memorie bolognesi di Romolo Bianconi, un lavoratore che raccontando la sua vita scrisse di un ferroviere anarchico, Pietro Rigosi, cui avevano amputato una gamba che decise di impadronirsi di un treno per farlo saltare. Fu una ballata, contro le ingiustizie sociali, che scrissi in mezz’ ora. Arrivai alla fine e mi accorsi che mancava l’ ultima e la prima strofa: “Non so che viso avesse e neppure come si chiamava…”. In quel periodo cominciai a cantarla alla Osteria delle Dame».

È stata una canzone emblema che ti ha identificato con il Sessantotto. Che giudizio dai di quel momento?

«Per me è stato un periodo positivo. Sono cambiate molte cose, a cominciare nei rapporti tra i due sessi. Penso che il ’68 ha trasformato la società».

Migliorandola?

«In certe cose sì, in altre no. Se penso alla scuola e all’ università vedo i disastri che la morte del merito ha provocato. Non ci siamo ancora ripresi».

Le canzoni fanno la rivoluzione?

«Non scherziamo, al più la accompagnano come nel caso di Bandiera rossa. Un canto tecnicamente brutto, ma messo in un certo contesto può perfino commuovere».

Ti commuove ripensare a una canzone come “Eskimo”?

«Un altro emblema di quel periodo, ma del tutto involontario. Comprai l’ indumento nel 1963 al mercatino di Trieste. Avevo finito il militare. Costò diecimila lire e veniva indossato dai soldati americani nella guerra di Corea. Anni dopo mi sono ritrovato in un mondo di eskimo. Ma ti assicuro che il mio era innocente. No, non mi commuove, semmai mi dà emozione una canzone come Incontro ».

“I nostri miti morti ormai…” così scrivevi.

«Era la storia di un’ amicizia tra un uomo e una donna».

Ho sempre pensato che fosse una tua storia d’ amore.

«Parlava di una ragazza che ora vive negli Stati Uniti e che allora viveva a Modena. C’ era molta complicità tra noi. Poi si trasferì a Bologna. Sposò un americano. E sparì per un po’ di tempo. Un giorno mi telefonò per dirmi che il matrimonio era andato a pezzi e lei lo aveva lasciato. Lui si uccise. E a me venne in mente di scriverci su una canzone ».

Ti piacciono i ricordi?

«Sono uno che ricorda spesso. La memoria è un bel motore che mi ha consentito anche di scrivere diversi libri. Tre romanzi che hanno al centro rispettivamente Pavana, Modena e Bologna. Ricordo meglio il passato remoto e non è male che certe cose rimangono e altre spariscono».

Perché hai lasciato Bologna?

«Era un’ altra vita. Qui a Pavana vado a letto alle undici di sera. A Bologna rincasavo alle cinque del mattino».

Musica, cibo e vino.

«Anche donne e carte. Giocavamo in osteria fino a notte fonda. Senza mai mettere in palio nulla: neppure un caffè».

Hai pubblicato da poco la raccolta delle canzoni che cantavi all’ Osteria delle Dame.

«Sono tre cd che racchiudono una manciata di anni. Quando pochi mesi fa sono tornato alle “Dame” mi sono commosso. Ma è stato come vedere un altro Guccini».

Un altro in che senso?

«Ho smesso di scrivere canzoni. Da anni non tocco più la chitarra. Tira tu le conclusioni».

Hai smesso con quale giustificazione?

«Mi sono accorto che le canzoni non uscivano più con la stessa voglia e intensità. Facevo sempre più fatica a riempire un album. E ho capito una cosa semplice: non ho più niente da dire. Almeno su quel versante là».

Come hai vissuto questa rinuncia?

«All’inizio male, poi mi sono abituato. Ho perfino tentato di riprendere. Ho scritto una nuova canzone per i Nomadi. Ma preferisco scrivere libri. Con Loriano Macchiavelli siamo all’ottavo giallo. E poi ci sono i miei romanzi».

Scusa se insisto, ma chiudere una porta così importante come la musica non ti dà dolore?

«No, mi dà dolore o angoscia non avere più l’ età che avevo. E guarda non avevo neanche la paura di fallire. Se le canzoni venivano, bene sennò pazienza».

Quindi ti sei ritirato qui a Pavana.

«Un posto che amo. Anche Bologna è stata molto importante».

Chi vedevi a Bologna, di chi eri amico?

«Le osterie erano porti di mare. Ti arrivavano attutite queste onde umane».

Frequentavi Augusto Daolio, il leader storico dei Nomadi?

«Non molto, ero più legato a Beppe Carletti. Frequentavo Claudio Lolli. Sono amico di Zucchero e di Ligabue, molto diversi ma con una base contadina in comune. Poi c’ era Lucio Dalla che veniva qualche volta a mangiare da Vito. Odiava la campagna. Mi diceva: ma cosa vai a fare a Pavana? Niente che ti piaccia, gli rispondevo».

A Bologna ne hanno fatto un mito.

«Sai quando uno muore è facile che diventi un mito o un aspirante mito. Lucio era uno strano personaggio. Eravamo molto diversi, due mentalità diverse. E credo che non abbiamo mai legato veramente. Aveva una capacità polimorfica; però alla fine anche lui faceva una certa fatica a scrivere canzoni. Era dotato di una voce secondo me bellissima».

Ti dà fastidio rievocare certe cose?

«No, anzi. Mi dà fastidio la richiesta di foto, i selfie che non sopporto. Ma cerco di essere gentile».

Che cos’ è la sopportazione?

«È l’ arte di non incazzarsi. E poi, dopo una certa età, si sopportano molte più cose».

Alludi alla tua vecchiaia?

«Se ne va poco per volta la prestanza fisica, arrivano gli acciacchi. Oggi faccio fatica a camminare e non ci vedo quasi più. Non riesco a leggere e ho bisogno di qualcuno che lo faccia per me».

Siamo a conversare nella tua cucina. Che rapporto hai con il cibo?

«Non sono quel che si dice un raffinato gourmet. Mi piace la cucina dei miei nonni. Non se ne può più di questi chef, che se uno perde una ” stella” scoppia una tragedia. Sono un uomo semplice di gusti semplici».

Hai scritto una bellissima canzone sui vecchi.

«Adesso sarebbe pura autobiografia».

Quanto ti piaci?

«Poco. Non ho orgoglio di me né autostima. Deve essere stata l’educazione repressiva di mio padre. Solo verso la fine della sua vita ci siamo incontrati veramente. Un giorno mi disse: avrei tanto voluto che tu facessi lo storico. E invece sono uno che ha scritto canzoni. Ma lui, intendo mio padre, avrebbe voluto fare il maestro. Finì in un ufficio postale. Non sempre le vite corrispondono ai nostri desideri».