Neffa: “Potrei anche io fare il Presidente, ma non andrei con una minorenne”

Pubblicato il 26 Luglio 2010 - 15:29 OLTRE 6 MESI FA

Neffa

Neffa non è Mick Jagger, lo dice lui stesso. Non riesce a catapultarsi con un balzo dall’altra parte del palco dopo una strofa di una canzone. Riesce a malapena a coccolare il microfono torcendo il busto come una “canna al vento”. Lui è stanziale. Immutabile. Quasi immobile per l’intera durata del concerto.

Cappello bianco calzato sino al setto nasale, nudo femminile (sembrerebbe Kate Moss) incollato sul petto. Ginocchio destro puntato verso il pubblico pagante che ripetute volte ringrazia ossequioso, ma mai affettato. Eppure in quell’assenza di movimento c’è del mestiere. L’arte di un ragazzo che avrebbe potuto continuare a fare il cameriere se solo non avesse provato a volare.

Stasi ritmica, battute veloci, improvvisazione sagace a una voce blues che cattura gli spalti non troppo affollati della Cavea di Renzo Piano. Ma lui dentro l’Auditorium del Parco della Musica sta comodo quanto un uccello multicolore di un fusto esotico dentro la gabbia di un criceto. Sì, c’è la ruota, ma a che serve?

Il concerto si apre con “Prima di andare via” e segue con due ballabili. Neffa invita il pubblico a salire sul palco e a scatenarsi, ma gli uomini della sicurezza dell’Auditorium bloccano gli impavidi dancer e il cantante smette di cantare. All’improvviso tuona: «Ma insomma, gli ho chiesto io di salire sul palco! In questo Paese è più semplice rubare che ballare».

Un’attempata “pariola” bionda tinta e col nasino rifatto non troppo alla perfezione grida: “Sei bellissimo”, lui risponde: “E tu cechissima”. Sketch sardonici alternati a momenti di respiro musicale. Ciak d’Oro, European Golden Globe, Nastro d’Argento per la miglior canzone. Giovanni Pellino è un cantautore in continuo cambiamento. Del rap ha conservato la satira: «In Italia la droga si trova nei fiumi, ma io e la mia band siamo “figli di botanica”, non contate su di noi».

Prende in giro più volte Paolo Albano, noto Puddu, perché le sue mani sulla chitarra classica fanno volare senza alzarsi da terra, ma se lo strumento gli cade – come è successo durante il concerto – tocca passare a quello elettrico, il suono si fa duro, i duri cominciano a suonare e lo spettacolo continua. “È meglio una delusione vera che una gioia finta”. I timidi spettatori si alzano in piedi sulle note di “Un mondo nuovo”. A questo punto sì che si balla e ci si scatena. Salgono sul palco, incuranti dei mastini dell’Auditorium e si agitano saltellando. “Perché quando la delusione cresce la pressione aumenta”.

Musicalmente “Sognando contromano” è un album classico, che riconferma Neffa autore di grande spessore. Un richiamo agli anni ’60 e ’70, in cui si fondono il pop-rock dei Beatles (“Bellissima”) e il grande soul di Marvin Gaye (“Nessuno”), la canzone melodica di tradizione italiana e  il sound anglosassone (“Qualcosa di più”, “In un sogno”, “La mia stella”).

Umile, schietto, coraggioso e anche altruista, come quando lascia il palco a un giovanissimo Chris Lavoro che, a differenza sua, è in grado di genuflettersi sul palco. Neffa riesce a dire quello che pensa senza mai cadere nella provocazione fine a se stessa. Per il bis propone un sempre vivo ricordo de “I messaggeri della Dopa”. Segue “Io e la mia signoria”, solo che il testo è leggermente modificato: “Vorrei anche io fare i presidente, ma non andrei con una minorenne”. Lo canta una volta, il pubblico lo recepisce, lo memorizza e al secondo ritornello lo “strilla” insieme a lui.

I Messaggeri della Dopa

Il blues, la musica nera, il rock degli anni ’70, certe sonorità che tornano di riflesso nella lounge sofisticata dei nostri giorni, il gusto per canzoni fatte di melodie e uno stile di canto che attinge all’emozionalità dei grandi maestri del soul.

Un ragazzino che ha appena imparato da aspirare il fumo, gli lascia uno spinello sul palco, ma il cantastorie di Scafati non vuole cogliere quel dono, prende in braccio una bambina con la coda di cavallo arruffata per il troppo ballare, la bacia, gira i talloni e se ne va, ancora una volta, “Sano e salvo”.