Elezioni: chi spinge e chi frena. Votare con due leggi è da matti

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 7 Dicembre 2016 - 14:04 OLTRE 6 MESI FA
Elezioni, protesta anti Italicum davantia  Montecitorio (foto Ansa)

Elezioni, protesta anti Italicum davantia Montecitorio (foto Ansa)

ROMA – Elezioni, chi ha fretta e chi frena. Spingono per votare subito Grillo e Salvini e anche Renzi. Frenano Mattarella, Berlusconi e Bersani/D’Alema. Ma per tutti un problema: oggi per votare ci sono due leggi elettorali diverse che litigano tra loro, una per la Camera, l’altra per il Senato. Votare così è da matti.

A meno di 72 ore dal voto referendario nel panorama politico italiano si sono coagulati due gruppi, eterogenei, di soggetti che vogliono per ragioni diverse elezioni il prima possibile o, al contrario, non prima di alcuni passaggi intermedi come quello attraverso il cosiddetto governo di scopo. E lo scopo sarebbe quello di confezionare una nuova legge elettorale. Legge che ad oggi non c’è, e anche quando e se la Consulta licenzierà l’Italicum modificato, senza un intervento del Parlamento ci troveremmo nella condizione di avere due Camere con due leggi elettorali differenti.

Una condizione discutibile non solo dal punto di vista politico e della governabilità, ma poco sostenibile persino da un punto di vista di diritti costituzionali. “Governo con tutti, altrimenti al voto”. L’ultimo in ordine di tempo a premere sull’acceleratore delle elezioni è il premier dimissionario Matteo Renzi che, per primo, domenica notte aveva tratto le conseguenze politiche del voto referendario aprendo la crisi di governo. Insieme a lui, a spingere per elezioni il prima possibile, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e, soprattutto, Beppe Grillo e il Movimento5Stelle. A premere invece sul pedale del freno, in nome della stabilità e delle scadenze istituzionali, e a voler quindi tentare la strada di un governo tecnico o di scopo che arrivi se non alla scadenza della legislatura almeno all’autunno prossimo, sono il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani.

Due schieramenti decisamente eterogenei che si trovano, anche se lo riconoscono sino ad un certo punto, a dover fare i conti con il citato problema della legge elettorale. Partendo da questo punto, quello della legge elettorale, oggi l’Italia si trova nella condizione di avere per il Senato (che il referendum ha mantenuto in vita e con potrei eguali a quelli della Camera dei Deputati) una legge, il cosiddetto ‘Consultellum’, basata su un sistema proporzionale. Per Montecitorio invece, anche e solo dopo il pronunciamento della Consulta visto che ad oggi l’Italicum è di fatto sub iudice, il sistema sarebbe quello maggioritario. La nostra Carta non vieta in modo esplicito di avere due sistemi elettorali diversi ma è implicito, nella Costituzione italiana come in quella di tutti i paesi democratici, il bisogno e l’opportunità di avere leggi magari diverse ma comunque ispirate ad un meccanismo unico.

La legge elettorale forma infatti il corpo elettorale, stabilendone limiti e confini. Corpo elettorale che per definizione dovrebbe essere omogeneo in modo da garantire parità di rappresentanza e rappresentabilità a tutti i cittadini e a tutti i candidati. Votare poi con due leggi così diverse, oltre a significare un’incrinatura nei diritti, aprirebbe le porte ai tanto temuti scenari d’ingovernabilità. Due leggi elettorali diverse non sono infatti sinonimo di due maggioranze diverse, ma poco ci manca. Specie in un Paese dallo scenario politico diviso come il nostro. E con due Camere di pari poteri e con la facoltà e il dovere entrambe di votare la fiducia all’esecutivo, formare un governo che si regga su due diverse maggioranze sarebbe opera di prestigio più che di politica. Perché allora Salvini, Grillo e Renzi spingono, per diverse ragioni, sull’acceleratore delle elezioni?

Il primo perché vuole capitalizzare il successo referendario e, non avendo reali aspirazioni di governo, poco gli interessa in fondo della governabilità. Che comunque sarebbe problema non suo. Grillo invece, che con i 5Stelle di aspirazioni di governo ne ha eccome, e non è un caso che Di Battista si sia affrettato a dire, ad urne chiuse, “è tempo di chiudere con la parola antipolitica per il M5s”, per le elezioni preme. Ipotizzando però il raddoppio di quell’Italicum che pochi mesi fa bollava come incostituzionale anche per il redivivo Senato. Questo perché, come sa bene Grillo e non solo lui, con un sistema maggioritario con premio di maggioranza il Movimento5Stelle avrebbe, con ogni probabilità, i numeri per governare. Anche da solo. Cosa che non sarebbe con una legge proporzionale che assegnerebbe sì la maggioranza, ma relativa.

E Renzi? Il premier uscente spinge ora per elezioni per due diversi ordini di ragioni. In primis per calcolo politico, conscio che un Pd costretto ad essere la prima gamba di un governo di scopo pagherebbe caro, anzi carissimo, questo passaggio alle urne. E secondo perché, come ha detto chiaro e tondo domenica notte, vuole che ora la palla passi agli altri, a chi ha sostenuto il No, “e vediamo cosa sanno fare”. A mordere il freno, per ruolo o calcolo, sono invece Mattarella che quasi per riflesso e per dovere prima di sciogliere le Camere deve tentare tutte le altre soluzioni possibili. Prima fra tutte quelle che porterebbe ad una nuova legge elettorale, se non unica comunque omogenea per Camera e Senato. E poi Berlusconi, che non ha un partito né una coalizione in grado di affrontare ora le urne, a meno di rassegnarsi ad avere un ruolo se non marginale almeno da comprimario nella compagine di centrodestra, e Bersani.

Ad entrambi farebbe molto più piacere una legge basata sul proporzionale che gli garantirebbe comunque l’esistenza in vita qualunque cosa accada, rendendo importanti e forse decisivi anche i partiti che non aspirano alla maggioranza. Inoltre l’ex segretario dem è ora forse persino impaurito dall’esito elettorale, ma cosa più importante è, al momento minoranza all’interno del Pd ancora (almeno sino alla direzione di questo pomeriggio) guidato dal segretario Renzi. E non è poi un mistero che il logoramento che il premier uscente vuole evitare, faccia la gioia di chi lo ha sempre osteggiato. Specie nel suo stesso partito.