ROMA – L’autocombustione esiste e di autocombustione si può morire. A renderla possibile, secondo gli ultimi studi, l’acetone. Non un fenomeno quindi da derubricare nel paranormale o nell’inspiegabile, ma una reale e concreta possibilità, per quanto estremamente remota.
Niente diavolo e nessuna punizione divina, non un fenomeno legato all’eccessivo ricorso all’alcol come si ritenne in passato ma un fenomeno biologico – chimico che ha ora una sua spiegazione scientifica.
“Secondo Gavin Thurston – scrive Elena Meli sul Corriere della Sera -, autore di uno studio pubblicato nel 1961 sul Medico-Legal Journal, il fenomeno potrebbe essere spiegato dal cosiddetto effetto stoppino: il grasso umano sciolto sarebbe in grado di bruciare a temperatura ambiente in presenza di uno stoppino, cioè di qualcosa che possa accendersi, come capelli o vestiti. (…)
Secondo Brian J. Ford, biologo inglese che ha affrontato di recente la questione sul New Scientist, anche questa spiegazione scricchiola: servirebbe troppo tempo per innescare una simile combustione e in molti casi le vittime sono state divorate dalle fiamme in pochi minuti. Ford, studiando l’argomento, si è però accorto che un pensionato morto nel 2010 (per supposta autocombustione ndr) era diabetico.
‘Il diabete porta alla formazione di una gran quantità di corpi chetonici come l’acetone, una sostanza altamente infiammabile: basta che nell’aria ve ne sia poco più del 2% perché possa andare a fuoco anche a basse temperature, inoltre è solubile nei grassi e può quindi renderli estremamente infiammabili. Molte vittime di presunta combustione spontanea erano obese, e l’obesità spesso provoca il diabete’, scrive il biologo. Secondo Ford questa è la spiegazione più ragionevole per la combustione spontanea: se una persona ha molto grasso e una chetosi, l’acetone può concentrarsi in forma gassosa a livello della pelle, sotto i vestiti. A quel punto il soggetto è altamente infiammabile e basta poco a scatenare l’incendio, che però non parte certo dall’interno: fanno da innesco le micro-scintille statiche che si formano dai vestiti sintetici o dal semplice pettinarsi…”.
Si può quindi bruciare senza apparenti cause esterne, e ora sappiamo anche come. Anche se il fenomeno dell’autocombustione, oltre ad essere un fenomeno inquietante e per alcuni versi affascinante, resta un fenomeno assai raro. La letteratura scientifica riporta infatti appena un centinaio di casi documentati nella storia dell’umanità, a partire da quello di un milanese morto carbonizzato nel quindicesimo secolo.
Da allora, e da quando uomini di scienze e non si sono cimentati nel tentativo di dare una spiegazione al fenomeno dell’autocombustione, tesi diverse sono state via via accreditate se non come vere almeno come plausibili. Oltre al già citato abuso di alcol, nel tempo si è ritenuto che l’autocombustione potesse essere frutto di un’infezione batterica in grado di far salire la temperatura corporea sino al livello di sprigionare le fiamme. Un’altra teoria voleva che il gas colpevole dell’autocombustione fosse il metano prodotto nel tratto gastro-intestinale del nostro corpo acceso da particolari processi enzimatici. O ancora altri ipotizzarono che con la combustione avessero qualcosa a che fare il magnetismo terrestre e lo stress, o ancora l’idrogeno e l’ossigeno intrappolati all’interno delle singole cellule.
Nel secolo scorso si sono quindi cominciate a ricercare spiegazioni più convincenti anche grazie allo studio di casi meglio documentati. Casi come quello di Mary Reeser, morta nel 1951 in Florida e trovata carbonizzata sulla sua poltrona senza che in casa vi fossero altri danni e, soprattutto, casi come quello di Michael Faherty, pensionato irlandese morto nel 2010. La morte di Faherty spinse persino il coroner che ne esaminò i resti a parlare di autocombustione ed è dall’analisi di questo caso che Ford ha elaborato la teoria dell’acetone.
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