Michael Bublè, figlio di tre anni con il cancro. Pensavano: orecchioni…

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 7 Novembre 2016 - 10:24 OLTRE 6 MESI FA
Michael Bublè, figlio di tre anni con il cancro. Pensavano: orecchioni...

Michael Bublè, figlio di tre anni con il cancro. Pensavano: orecchioni… (foto d’archivio Ansa)

ROMA – Michael Bublè, un figlio di tre anni con il cancro. Difficile anche solo immaginare cosa un padre e una madre possano pensare, vivere e subire quando la biologia sembra voglia sovvertire le sue leggi e la vita stessa appare voglia farsi feroce. Un figlio di tre anni con il cancro è la violenza più grande e infame che la sorte, il destino o il caso che sia vogliono infliggerti.

Bublè e la moglie non hanno trovato altra parola per descriversi che “devastati”. Devastati, annichiliti. Dal colpo di mannaia della diagnosi. Immaginarsi quel momento, quel giorno. Era cominciato con un sospetto sulla salute del bambino. Un sospetto che aveva preso un nome, un nome abbastanza usuale nelle malattie dell’infanzia: orecchioni. Sì, Noah deve avere gli orecchioni, portiamolo dal medico.

Ma non erano orecchioni, le analisi, biologiche e strumentali, e quindi la diagnosi, le parole che dicono, la mente che si rifiuta di capire quel che le parole dicono. Cancro a tre anni? Non può essere. I bambini non hanno il cancro, è una roba da adulti. No, può essere, anche i bambini possono avere il cancro.

Ma mio figlio, mio figlio, mio figlio a tre anni già in pericolo di vita. Per un genitore la possibilità, l’insostenibile possibilità di veder capovolto l’ordine delle cose che agli umani appare quasi di natura, la maledetta possibilità di dover seppellire il proprio figlio, di vedere morire la propria prole prima della propria morte.

E se non sarà questo, la quotidianeità della sofferenza, del dolore che il proprio figlio assocerà ai giorni della sua vita da bambino. Le cure appunto, il dolore, l’ansia, l’angoscia, la tristezza, in una parola l’infelicità fatta malattia sarà la condizione di vita di quel bambino, il tuo.

Per quei genitori la voglia di ribellarsi contro non si sa chi, non c’è nessuno contro cui ribellarsi. La tentazione di lasciarsi andare, tentazione forte. Ma non si può, quel bambino è tuo figlio. La condanna a guardare negli occhi quel bambini sempre con la paura che il suo sguardo svanisca. La speranza obbligata (ma può anche essere disperata) nella cura. E d’ora in poi il segno indelebile nella mente, nell’anima e nel corpo di aver subito un danno, il peggior danno possibile per una padre e una madre: un figlio di tre anni malato di cancro.