Delfini macello: coda legata, asta di ferro nelle vertebre e affogati nel sangue

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 22 Gennaio 2014 - 14:03 OLTRE 6 MESI FA

delfinoTOKYO – Legargli la coda e poi piantargli un’asta di ferro nella colonna vertebrale. A questo punto aspettare con calma che la morte arrivi o per dissanguamento o per affogamento in quella brodaglia di acqua e sangue che non è più mare. Si ammazzano così i delfini. Almeno nella baia di Taiji, in Giappone. Un metodo probabilmente crudele e certo né semplice né comodo. Ma è la tradizione…

Un documentario che racconta la mattanza dei cetacei che ogni anno si ripete nel paese del Sol Levante vinse l’Oscar nel 2010, si chiamava “The Cove – La Baia della Vergogna”. Il documentario racconta quello che tutti in realtà già sanno. Una realtà che però gli stessi pescatori giapponesi, nonostante le rivendicazioni di stampo culturale, vogliono nascondere.

Non è infatti un caso, come racconta Guido Santevecchi su La Stampa, che siano gli stessi pescatori a non voler mostrare come uccidono i delfini. “Hanno messo all’imboccatura della baia un telone incerato, per evitare foto e filmati degli animalisti e dei reporter. Poi la mattanza è cominciata: i pescatori giapponesi avevano legato la coda dei delfini selezionati per impedirne la fuga; poi gli hanno piantato una sbarra di ferro nella spina dorsale e li hanno lasciati dissanguare e soffocare nell’acqua poco profonda fino alla morte. Le carcasse sono state tirate a bordo delle barche: la loro carne sarà venduta e finirà sulle tavole dei giapponesi. Sono finiti così, in un’insenatura di Taiji, nella prefettura occidentale giapponese di Wakayama, 40 delfini di un gruppo di 250 catturati nei giorni scorsi”.

E gli altri? Gli altri 200 delfini, che fine hanno fatto, viene legittimamente da domandarsi. Ai sopravvissuti è andata certamente meglio, ma non si può dire che sia andata bene. Una cinquantina sono stati catturati, vivi, e saranno rivenduti agli acquari. Si tratta degli esemplari “più belli”. I restanti 150 sono stati invece liberati, ma solo dopo aver vissuto un vero e autentico inferno. Hanno infatti riguadagnato il mare solo dopo essere stati rinchiusi insieme agli altri per tre giorni nella “baia della morte”. Tre giorni in cui i piccoli sono stati separati dalle madri e tre giorni in cui hanno nuotato nell’acqua resa rossa dal sangue dei loro compagni uccisi.

Come ogni anno anche questa volta si sono levate voci di protesta contro la pesca dei delfini e, soprattutto, contro il modus con cui i cetacei vengono prima intrappolati e poi uccisi. Yoko Ono e l’ambasciatrice Usa in Giappone, Caroline Kennedy, figlia di JFK, hanno espresso il loro disappunto e, come ogni anno, è arrivata la difesa delle autorità giapponesi.

Yoshinobu Nisaka, governatore di Wakayama, ha respinto i due interventi critici, sostenendo che “la cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda”. Secondo Nisaka, la caccia ai delfini non è vietata da alcun trattato internazionale e la specie non è tra quelle in pericolo di estinzione. “Ogni giorno vengono abbattute vacche e maiali per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini? Non ha senso”, ha concluso il governatore.  È intervenuto anche il portavoce del governo di Tokyo, anticipando che le autorità esporranno la loro posizione a Washington e diranno che questa forma di caccia è una tradizione culturale. Il capo dei pescatori di Taiji ha detto che “come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività”.

Obiezioni a sostegno delle tesi nipponiche che sono vere. I delfini non sono una specie a rischio e i pescatori della zona vivono di questo commercio. Come vero è che ogni giorno migliaia, anzi milioni di animali vengono uccisi per soddisfare le esigenze alimentari e non solo dell’uomo. Dimenticano però i giapponesi che si può uccidere anche con umanità, per quanto paradossale possa apparire. Sparare un colpo in testa ad un delfino, ad esempio, lo rende tanto morto quanto un palo conficcato nella colonna vertebrale. Ma questo, evidentemente, non fa parte della cultura e del folklore nipponico.