Cocomero elettorale in 4 fette grandi. Non si sommano e nessuna vale un governo

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 18 Settembre 2012 - 15:31 OLTRE 6 MESI FA
(foto LaPresse)

ROMA – Comunque vada sarà un gran…”casino”, con e senza l’accento sulla o finale perché sarà gioco d’azzardo e confusione insieme. Potrebbe essere questa la sintesi delle prossime elezioni politiche italiane se i dati di un sondaggio de La7 si tradurranno in realtà. Secondo quei dati infatti la “torta elettorale” risulterebbe quasi perfettamente spartita in quattro fette: sinistra, destra, “contro” e “niente”. Più che di torta, quattro fette di cocomero che una volta tagliate non le avvicini più perché rotolano l’una lontana dall’altra e, comunque le metti, non si “incollano” più.  Rendendo così, di fatto, qualsiasi governo anche di maggioranza alle Camere, un governo di minoranza nella società, chiamato ad aver “contro”, in qualsiasi conformazione, quasi i due terzi degli italiani.

Uno scenario, quello prospettato da La7, niente affatto inverosimile e che, con tutta probabilità, non si modificherà in maniera sostanziale da qui a quando gli italiani saranno chiamati alle urne. La sinistra, intesa come Pd, Sel e alcuni partiti “minori” avrebbe sì la maggioranza relativa, fermandosi però intorno, se non sotto, al 35% dei consensi. Seguita abbastanza da lontano dalla destra, Pdl e Destra, accreditati di circa il 27% dei voti. Appena un punto percentuale più su dell’insieme delle forze che possiamo definire “contro”: da Grillo a Di Pietro passando per la Lega. Infine, la quarta fetta della torta, spetterebbe al “niente”. A quelli cioè che in nessuna di queste forze si riconoscono e che oggi non hanno intenzione di votare. C’è poi una “fettina”, quella del 10 per cento abbondante di cui sono oggi accreditati i centristi, gli unici che possono accostarsi e collegarsi di qua o di là.

Il totale delle fette del cocomero fa circa 130 su 100 per cento. E non è errore perché il 30 e passa per cento di quelli che dicono “niente” fa in modo che il 35 ad esempio della sinistra sia non il 35 del cento ma il 35 del 70 per cento rimasto una volta sottratto il 30 di chi è appunto per il “niente”. Significa che il 35 per cento di Bersani e Vendola vale in termini assoluti un terzo di meno, diciamo resta il 24 per cento degli elettori potenziali. E cosi per Berlusconi e soci, il loro 27 per cento è 27 di settanta, quindi 27 meno un terzo, cioè 18 per cento in termini assoluti. E così è per i “contro” Grillo e Di Pietro: il loro 26 è 26 di 70 e non di cento, quindi 18 per cento assoluto più o meno.

Una divisione che sorprende e stupisce per la quasi omogeneità di risultati e forze. Che esista infatti una spartizione tra destra, sinistra, “contro” e astensione è normale, prevedibile e quasi fisiologico in qualsiasi elezione. Ma che i voti e le preferenze si distribuiscano in modo quasi eguale tra le quattro “fette” è meno normale e prevedibile.

Quattro fette della torta che sono, tra l’altro, non sommabili tra di loro. Ampliabili forse, ciascuna di loro può allargarsi o restringere di qui al voto, ma non di tanto. Ma certo non sommabili. Questo perché se paradossalmente Bersani decidesse di allearsi con Grillo, i voti della coalizione che ne nascerebbe sarebbero meno della somma dei voti del Pd e del M5S. Un alleanza simile inevitabilmente allontanerebbe elettori democratici e grillini dalla loro lista di riferimento. E lo stesso discorso può essere applicato a Pdl e Lega o Pdl e Grillo. Qualsiasi alleanza risulterebbe infruttuosa in termini di voti e persino dannosa dal punto di vista percentuale. Una condizione che mette una seria ipoteca sul governo che verrà.

Con queste premesse chi sarà chiamato a governare dopo Mario Monti, sarà infatti chiamato ad un compito non facile. Perché se è vero che una maggioranza parlamentare, con questa o con un’altra legge elettorale uscirà dalle urne, è assolutamente probabile, se non certo, che sarà una maggioranza numerica e scarna. Una maggioranza che formerà un governo che, di qualunque colore sia, sarà un esecutivo costretto a governare senza l’appoggio di circa due italiani su tre.

Certo la democrazia, i nostri sistemi di rappresentanza non prevedono che chi governa lo faccia o lo debba fare in nome della maggioranza assoluta dei cittadini. E sovente nemmeno di quella degli elettori. Ma solo in nome della maggioranza di coloro che il loro voto hanno espresso. Non aventi diritto da una parte, e astensione dall’altra “condannano” i nostri sistemi a reggersi su maggioranze relative. Non per questo però si può non tener conto di quanti un governo non hanno votato.

E una prospettiva in cui chi governa lo fa forte di numeri così scarsi non è certo un buon viatico per un governo che, qualunque sia, sarà comunque chiamato a proseguire l’opera di risanamento iniziata dai tecnici. Evidente è, infatti, che tra un anno la crisi non sarà alle spalle, e di misure da prendere per rilanciare il Paese ce ne saranno ancora molte.